The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Beltaine 2011

Beltane 2011

Ci sono momenti in cui quando guardo il mondo faccio fatica a credere a ciò che sento dentro, a quel battito che ritma nella terra, nell'acqua, nell'aria. E lo sento da tempo ormai. Come un lamento lugubre che sale, lento. A volte mi sono messo le mani sulle orecchie, per non udire, per riuscire a continuare a vivere la mia vita, ad abbracciare mio figlio senza dargli ammonimenti, senza temere per gli oscuri giorni che ci attendono innanzi. Io non riesco più a stare in silenzio.
Qunte volte ci è comodo fare così. O forse che i gelidi venti che spirano ci giungono dal profondo, da quelle oscurità abissali dove si annidano creature cieche e senza palpebre, come insetti che "rifuggon la notte in volontario esiglio, fidi all'oscurità dal nero ciglio". Come Richie Tozier, affondando i denti nella lingua della Divoratrice riusciamo a raccontare barzellette. Ma lo facciamo perché non notiamo? Come un cane rabbioso e sbava e sbava e sbava; crediamo che basti ora offrirgli un osso affinché si calmi?
Siediamo sui nostri scranni, prendiamoci una Bud e fumiamoci una canna rollata in foglie di Marijuana.
Attendiamo. Osserviamo la natura girare, continuare nel suo corso, nei suoi giri. Quei nastri che si legano e si slegano e si legano e si slegano ancora. Alzate sacri i vostri fuochi nelle notti che splendono di calore e buio. Danzate all'amore e alla vita. Ciò che deve essere sarà e nessuno potrà in realtà impedirlo. Ha in fondo senso fermarsi a preoccuparsi? Guardiamo quello splendente sole e allettiamoci di ciò che siamo oggi; domani saremo o non saremo, forse che sì forse che no. E i bagordi e il desiderio, la forza, la bellezza, i baci e le carezze nell'oscurità, godiamoci ogni singolo minuto di queste notti sacre.
La mia insegnante, in quella dolce e tenue eclisse che precedette il suo trapasso, tra gelide coperte, mi suggerì di "amare solo chi se lo merita". E io mi aggiro per il mondo, gettando sogni, speranze, distribuendo le carte che il banco mi ha dato in mano e che non posso cambiare e cosa vedo? L'amore nasce, vive e muore. E per quanto a volte possiamo pretendere che sia una scelta, come la vita, a volte non possiamo scegliere. A volte dobbiamo solo vivere il nostro compito fino in fondo, senza smettere mai di guardare avanti. Anche se dovremo camminare sui corpi, sentire i lamenti, l'odore del sangue, la sensazione del freddo abbraccio come carezze tombali; dovremo andare avanti e assolvere ai nostri doveri, quelli che ci siamo scelti, per i quali siamo qui. Qualsiasi essi siano, anche se oscuri e misteriosi ora, non possiamo tirarci indietro.
Nel tempo, quelle mani alzate al cielo, e come pelle di pietra contro cui l'acqua si infrangeva; solidi, granitici. Eppure tenevamo le lettere d'amore, e ancora annusiamo il profumo che avevano e che non hanno perduto nel tempo; quegli sbaffi di penna e le cancellature sui colorati fogli a quadretti bucati strappati dal quablock. E correvamo liberi, senza tregua, impossibili da trovare. Ci regalavamo sassi e conchiglie e fiori e mandavamo a dire a qualcuno che la vita ci aveva bussato alla porta. Eppure il sole ha continuato a sorgere e tramontare, anche là dove credavamo che non sarebbe successo mai. E la notte è stata lunghissima a volte; con caldi abbracci o gelidi sospiri e pianti. Lunga come al polo nord, in un modo che non possiamo nemmeno comprendere.
A volte mi dico che non sarà vero niente, che questa cosa che sento qui da tre anni non è che una pallida sensazione di passaggio e non un terribile presagio. Ma poi torno a mettere le mani sulla terra, nei fiumi, sugli alberi, lascio che i venti mi accarezzino e guardo quel cielo ciclope nelle notti di esbat e sento aprirsi il nero abisso sotto i miei piedi. Non lo posso negare. Sarei un falso, un ipocrita. Se non sarà così riderò, forte, al mondo. Lungo i fiumi, nelle foreste, danzerò ancora nei giorni e nei mesi e negli anni. E chi dice che poi non sarà possibile lo stesso?
Amiamo davvero chi se lo merita. Facciamolo. E teniamoci la grande riserva del perdono, che come dicono Anthony ed Elisa, "è la nostra chiave del mondo". E non per chi ci ha fatto del male, ma per noi stessi, perché possiamo così essere migliori e non portarci dietro il peso dell'avvelenamento di ciò che ci è successo. E il perdono è il passo che segue la comprensione di ciò che ci è capitato e l'insegnamento che ci ha portato. Davanti a noi le porte sono chiuse e tutte uguali, ma dobbiamo saper sempre mettere saggezza nelle scelte che facciamo e sapere cosa fare. Anche se poi sarà un errore, ma avere le idee chiare. A volte quando mi guardo in giro, e vedo quelle grandi altalene su cui le persone oscillano, descrivendo falci di sorrisi nell'aria immota; sento le loro risa, i loro canti gai, a volte i pianti di chi cade e si fa male. Mi dico allora che alcune persone feriscono solo perché sono a loro volta state ferite e non conoscono altro modo. Vorrei poter giustificare alcune delle loro azioni, vorrei poter dire che ne sono in grado. Ma quello che posso fare è lasciare andare. Per me stesso, non per loro. Noi scendiamo e saliamo, dai cancelli del sottosuolo, là dove la luparia cresce folta e dove i triplici ringhi rimbombano nelle oscure profondità, alle dorate scale che ascendono volteggianti del monte immerso tra le nuvole, perché compenetriamo entrambe le cose, fitone noi stessi, anima driadica incarnata a lignea; e le nostre radici legate ai nostri rami.
Ora che tutto sta per cambiare, pegno e bacio sia rispettare la nostra parola, qualsiasi sia. E se non siamo in grado di darla, non pronunciamola. Il potere della verità è fondamentale, essenziale. È tutto ciò che abbiamo. Se entriamo in un cerchio dicendo "perfetto amore e perfetta fiducia" che sia così. E non è il segreto che pesa, bensì la menzogna. E il cerchio è quello della vita, non solo quello fatto di mani unite e tracciato con la lama. In antichi testi si diceva che "in principio era il verbo". La parola è il potere della vita, il potere del comando stesso e ha insito dentro la più grande energia mai vista. E con le parole anche i pensieri. Anche quelli. Dovremmo tenere insieme anche quelli. Metterli in ordine, rispettare ciò che siamo, ciò che pensiamo, ciò in cui crediamo e quindi essere coerenti con le nostre scelte, con le nostre promesse, con ciò che abbiamo detto che non faremo mai. Rispettare la nostra vita, tutto ciò che vorremmo diventare e la via che ci porta dove siamo diretti. Dovremmo accettare l'amore quando ci viene offerto e non mescolarlo a cose che non hanno attinenza. Dovremmo lottare per noi stessi, per ciò che abbiamo e ciò che sentiamo di aver bisogno. Dovremmo saperci ripulire delle cose che non sono nostre, gettare via ciò che non ci serve senza pensarci due volte. Regalarlo via a chi serve. Perché ogni cosa segue un ciclo.
Vorrei credere che non sia troppo tardi, come quando si era a scuola e si era in questo periodo e cominciavi a studiare per rimediare alle insufficienze e migliorare la media, ma poi alla fine avevi comunque le materie a settembre e a casa era il terrore. E mi dico che anche sul ramo dell'albero bianco nella città bianca, quell'albero che pareva morto, dove le guardie reali stavano salde, alla fine un fiore è sbocciato, e che anche dopo gli incendi una piccola piantina riesce a farsi spazio, mi dico che la tempesta porta con sé i semi di piante esotiche. Mi dico che non può essere tutto qui, che quando tutto cambia qualcosa deve comunque rimanere per ricordarci cosa era del passato. E mi dico che la vita che nasce per scelta di quella stessa vita, se non ci fosse possibilità anche minima che esistesse, non nascerebbe.
Ma altre sono le vie, altri sono gli insegnamenti. Come ad esempio cercare di vedere le cose per come sono. Lo facciamo? Non sempre. Spesso vediamo ciò che ci capita come un affronto di tipo personale. Anche la piccola disgrazia che ci capitala prendiamo come se fosse messa lì apposta perché noi vi inciampiamo. Innanzitutto questo la dice lunga sull'egocentrismo (...). Siamo parte del grande, essendo piccolo. Ed è vero, noi permettiamo agli altri di farci ciò che ci fanno, ma spesso quando ci capita di vedere le cose che ci capitano come se fosse una presa di posizione contro di noi non stiamo facendo altro che schiacciare le persone che ci sono intorno con quello che è il nostro vedere e giudicare. Grande è l'arroganza dell'essere umano, sin da quel passato mediamente prossimo, quando si seguiva l'antico testo che nella Genesi autorizzava Adamo a soggiogare tutte le creature del creato, ivi compresa Eva. Siamo davvero migliori? Su che punto di vista? Ognuno ha un modo di essere, un modo di trattare le altre persone che deriva da ciò che è diventato. Non si nasce stronzi, lo si diventa perché qualcuno ti ha trattato spesso come uno stronzo. La domanda è: saremmo davvero in grado di fare diversamente nella medesima situazione globale, vitale ed esperienziale? O forse veramente chi parla con noi, chi ci incolpa, ci giudica e (ovviamente) anche quando noi facciamo lo stesso, sta solo parlando di se stesso? Sta solo specchiandosi nei nostri occhi come Narciso alla fonte di Donacone e riconosce la sua immagine storpiata, perché ognuno di noi è specchio stesso di ciò che è stato crescere nel mondo in cui siamo cresciuti, plasmato sul volere e non sul bisogno, sul desiderare per avere e non sul lavorare per guadagnare, sul pretendere di possedere ciò che non ci appartiene solo perché siamo più forti. Capire questo ci permette di arrivare a non sentire più nostro il giudizio che le persone ci scagliano addosso perché stanno solo prendendo le misure con un metro che non è adatto a noi, ma fatto sulla loro esistenza, sulla loro esperienza. Ah riuscirci davvero... ascoltarsi dentro, come diceva Laura fuori a cena, a Roma, quasi un anno e mezzo fa, e diventare così relativamente immuni al pescare delle nostre stesse paure, riflesse nelle parole delle persone che causano odio, invidia, rancore, gelosia. Sentimenti che il più delle volte rimangono lì, senza uno scopo reale, senza un reale muovere, ma stagnanti e aggrappati, come sanguisughe attorcigliate al nostro animo che succhiano e ci indeboliscono. E a volte cazzo non è così davvero? Rimaniamo aggrappati a qualcosa del passato, un evento su cui si sono accumulati anni. Come il papà di Serena Coletti che le portava sempre le caramelle fuori dall'asilo e a me lei non le dava mai o quel bambino più grande che mi è venuto addosso con la sua bicicletta, mi ha gettato fatto cadere dalla mia e poi, dando la colpa a me mi ha picchiato assieme ai suoi amici, derubandomi di quelle mille lire con le quali dovevo comprare il gelato tre gusti dal tipo capellone sotto casa, quello che somigliava a Satomi. E io sono tornato a casa, il volto rigato, colmo di rabbia e ho detto a mia madre che il gelato l'avevo già finito perché non avevo il coraggio di dirle che non avevo potuto difendermi contro quei tre. Che non ne ero stato in grado. E non capivo perché fosse successo, perché alcune persone potessero fare cose come quelle. Quella rabbia non era per il gelato, o per quei tre, ma per il fatto che quell'ingiustizia mi aveva messo nelle condizioni di dover mentire.
Fino a che, l'altro giorno, apro il giornale e leggo che che uno di quei tre (un nome che era noto ai miei tempi) è stato arrestato per aver malmenato una persona e, in seguito, per bruciato la sua macchina perché questa stessa persona lo ha denunciato per la violenza. E mi dico, a distanza di anni: allora non ce l'avevi con me. Non ero io il tuo obbiettivo. Quella paura che mi ha inchiodato a casa per settimane, impedendomi di tornare a quel parco, nel timore di incontrarti di nuovo di dover essere di nuovo circondato e picchiato e deribato, non era dovuta a me. E questa cosa mi libera dal peso che mi portavo dietro e che era dovuto al non sapere perché mi sei venuto addosso con la bici, perché mi hai circondato con i tuoi amici, perché poi mi hai incolpato di averti fatto cadere e perché quando ero a terra hai cominciato a calpestarmi le mani con cattiveria mentre le persone passavano indifferenti, facendo finta di non vedere. Qualcosa dentro te è stato spezzato e tu forse credevi che quello fosse l'unico modo in cui era possibile risolvere le questioni, qualsiasi siano: mostrare di essere forte e violento. Bene. È un tuo peso ora, non più mio. Io sono cresciuto.
E per tutti questi anni, non è forse strano il modo in cui ci sofferimiamo a pensare a cosa potevano aver pensato le altre persone? Ma solo quelle che ci hanno fatto male. Già. Quante volte invece ci preoccupiamo di pensare cosa può aver provato chi è stato ferito da noi? Siamo sempre bravi a prendere le decisioni in fretta, a capire ciò che ci interessa dei discorsi, trapiantare avverbi dove non ci sono, incollare soggetti, cambiare il tempo dei verbi affinché tutto entri perfettamente a comodo con ciò che crediamo di poter supporre. E prima di fermarci a riflettere diamo per scontato che sia così e non guardiamo la realtà dei fatti.
Ah, Dea... il discernimento. Lo vediamo dove ci fa comodo. Il malinteso è la fonte del novanta percento dei litigi. Quante cose non dette... quante. E ora, proprio ora, guardando la clessidra mi pare di poter contare i granelli; mi sento così spesso dire: "vorrei avere più tempo". Più tempo per capire? Per perdonare? Per dire a qualcuno che amiamo che ci siamo sbagliati? Per dire a qualcuno che ci ha fatto male: "vai in pace, anche ma lontano da me"? Tempo per capire dove possiamo rimediare in ciò che abbiamo fatto, per far capire alle altre persone perché ci hanno fatto sentire feriti? Tempo? Già. E quel vecchio adagio che diceva che il più grande spreco del mondo è l'amore e il tempo, perché sono le uniche cose che non possono essere comprate ma solo vissute... come mi torna in mente sempre. Grande giogo di incomprensione ed equivoco, come quercia ed agrifoglio. Nessuno mi può leggere nel pensiero e può capire ciò che realmente ho dentro. Nonostante tutti questi aspiranti Guilderstern pensino di potermi suonare come un piffero, perché "è facilissimo, come mentire", io non rivelo ciò che sono dalla nota più acuta a quella più grave del mio registro a chi pretende di conoscere i miei tasti e sradicarmi dal cuore il mio segreto.
Ma poi... mi dico... anche lì... i segreti. A che cosa sono serviti e servono se ciò che sentiamo ce lo portiamo direttamente nella tomba? E quindi lasciamo che gli altri facciano ardue supposizioni come impalcature traballanti e ponteggi per capire cosa proviamo nel profondo di noi, affinché possano capirci e amarci e noi invece, spesso, pretendiamo che sappiano ciò che pensiamo e diamo per scontato che sia chiaro... quando invece non è così. Perché questo bagaglio? Perché questo peso? Questo trascinarci dietro il nostro ego come se fosse un rimorchio, e ci incontriamo curvi per la strada, faticando immensamente... ma per che cosa? Per fare a gara a chi ce l'ha più grosso?
Nella mia vita ho imparato così tante cose solo per via degli errori che ho fatto; se non li avessi fatti, se non fossi caduto, se non fossi rotolato, se non fossi precipitato... sarei un nulla invece che un uomo. Una cosa credo sia certa. Guardando la TV con Morgan anni fa (quando per me era ancora un elettrodomestico dato che vivevo con sua mamma), ero fermo su un programma per bambini... si chiamava Lazy Town. Insomma in questa cittadina c'era questo supereroe sportivo, un tal Sportacus che insegnava la bellezza del mangiare sano e di fare attività fisica. Nell'episodio che stavamo vedendo il nemico, Robbie Rancido, aveva costruito un robot che giocava a calcio e con quello ha sfidato Sportacus. Se fosse riuscito a batterlo il supereroe era costretto ad andarsene per sempre da Lazy Town. Grazie all'ausilio del robot invincibile, Robbie era riuscito a battere Sportacus e, delusi, i bambini si sono rivolti al loro eroe con dubbio e sorpresa. Lo avevano sempre ritenuto invincibile. Era impossibile che in uno sport potesse rimanere sconfitto. In quel momento, Sportacus diede loro l'insegnamento della puntata: "Ho fatto del mio meglio. Nessuno può fare più del proprio meglio". Già. Grande Sportacus. Sempre sulla cresta dell'onda eh?
Se faccio degli errori è perché sono un essere umano. Come dice Bon Jovy: "I make mistakes, I'm just a man". Ma se mi impegno a fare tutto ciò che posso e a dare il meglio di me nei rapporti, in ciò che sono, alle persone che amo, senza mettermi in competizione, senza scadere nei sensi di colpa di ciò che non riesco a fare, allora riesco a raggiungere quello stadio che è l'accettazione di me. Ci sono tante cose e tante persone che potrebbero essere importanti nella nostra vita, ma l'azione deve muoversi per l'azione, non per il desiderio che c'è dopo. Nel desiderio di fare ciò che desideriamo perché ha valore per noi. Se consacro un luogo lo faccio nel nome degli Dei, affinché altre persone possano andare lì e celebrare e onorare ciò che sentono con il medesimo amore con cui lo faccio anche io, anche se in modo diverso; io non lo faccio per conquistarmi fama o rispetto o gratitudine. Se passo le mie conoscenze a qualcuno è perché quelle conoscenze possano un giorno essere utili a qualcun altro e non andare perdute nelle generazioni, granello per granello; sopravvivere insomma. Dopotutto l'ottanta per cento di quello che so l'ho imparato da altre persone che me l'hanno insegnato, per via personale, dialogando o leggendo libri scritti. Non è mio. Un dieci per cento è esperienza, e un dieci per cento conclusione ispirazionale. Ma è passaggio comunque. È il contributo che si dà ad un'Arte praticandola. Se io dovessi frenare lo scorrere della conoscenza non ne sarei detentore, ma solo suo carceriere e diventerei così giudice di ciò che conosco e non custode. Non sarebbe più difendere la conoscenza, bensì difendere la fatica che ho fatto ad acquisirla. Ma a cosa sarebbe servito farla se non posso donarla a nessuno? Se tutti avessero ragionato in questo modo, morte le streghe, gli esoteristi, gli illuminati dell'antichità noi avremmo perduto tutta la loro sapienza. E invece siamo ancora qui ad insegnare ai nostri figli gli antichi rituali e le antiche tradizioni e non vogliamo che vadano perdute. Gerard, se mi senti (ammesso che tu non sia di nuovo qui) sappi che io avrei seguito i tuoi passi ovunque, perché secondo me tu avevi visto giusto.
Mostrare l'amore per gli Dei, quindi per noi stessi, in tutto ciò che facciamo. Nelle singole cose. Quelle grandi e quelle piccole. Ecco quello che dovremmo insegnare ai nostri figli.
Poco tempo fa ho avuto una visione. Di quelle che ti arrivano quando mediti. Ero sulla spiaggia e stavo danzando con te. Doveva essere primavera perché la sabbia disseminata di dune era priva di ombrelloni. Era il tramonto e tirava l'aria della sera, con i colori rosati del crepuscolo in arrivo. C'era un cane, un golden retriever, che inseguiva i gabbiani che si alzavano in stormo sfuggendo ma stando al gioco e posandosi di nuovo appena era passato. Abbaiava forte e il latrato sembrava scontrarsi contro il rumore del mare e della marea che saliva. E sentivo gli sciaf sciaf dei piedi nudi sul bagnasciuga. Io non sono capace di ballare, non l'ho mai fatto (prima di questo Bel), ma con te lo stavo facendo. Ad un tratto ho sentito quel forte dolore sotto la pianta del piede sinistro. Ad un primo momento ho pensato fosse un morso di qualche animale, ma ho continuato a danzare perché tu non te ne accorgessi. Sentivo la tua testa sulla spalla, l'odore della tua pelle mi inebriava. Non volevo perdermi quelle sensazioni. Appena ho potuto ho sbirciato. Era una conchiglia spaccata che, acuminata, mi si era infilata nel piede in profondità. Stavo sanguinando e ho notato che l'acqua cominciava a divenire rossa. Dapprima il fenomeno era solo a riva, portato via dalla risacca. Poi le onde si sono fatte rosse di sangue e a lungo andare anche il mare si è fatto rosso. Rosso del mio sangue. Pensavo che fosse il colore della luce del tramonto a renderlo così, ma dentro sapevo che era il mio sangue. E io non smettevo di ballare perché non volevo che tu perdessi il momento e non volevo perderlo nemmeno io. Ma continuavo a sanguinare.
Ci sono stati momenti in cui mi sono chiesto che cosa significasse questa visione, che non è stato un sogno, perché di fatto non stavo dormendo. Come molte altre cose me la metterò via e non ci penserò più. E ci sono così tante interpretazioni nei simboli di ciò che ho visto, ma sono tutti sconnessi. E forse è stato solo uno di quei pseudo-ricordi falsi che ci creiamo. Chi può dirlo?
Sento che tempi oscuri ci sono innanzi. La strada che si immerge nell'oscurità rischia di essere perduta. Forse è dato che dobbiamo perdere la strada. Forse è dato che non la ritroveremo o che comunque non avremo modo di vederne la fine. Forse i tempi passeranno e le cose cambieranno in modo diverso da come ci aspettiamo. Forse ci sbagliamo tutti quanti, io per primo. Io non ho paura. Comunque sia, riunite le vostre esperienze e cercate di fare una lista di ciò che credete possa realmente servirvi di ciò che avete imparato negli anni che avete vissuto fino ad oggi e lasciate andare il resto; non perdete tempo, chiamate le persone che non sentite da tempo e che desiderate sappiano che voi le amate. Qualsiasi cosa mai possa succedere, da qui a cento anni, ricordare ad una persona che amiamo quello che sentiamo non è mai una scelta sbagliata. Paradossalmente poi... amare spesso non è nemmeno una scelta. Come non lo è a volte sbagliarsi sull'amore.
Poco tempo fa una persona aveva un dubbio e mi ha chiesto... mi ha chiesto se ha fatto male a perdonare una persona che lo ha offeso, che lo ha fatto sentire ferito. Io credo che non sia mai sbagliato perdonare chi ci ha ferito. Però bisogna saperlo fare nel modo giusto, quando è tempo e soprattutto, nell'ordine giusto; e i primi che dobbiamo perdonare in genere siamo sempre noi stessi. Per ciò che abbiamo concesso che ci sia fatto, per le ferite che ci siamo autoinflitti, per le punizioni che ci siamo dati e che non hanno poi avuto senso. Capire se è tempo, perdonare e poi lasciare andare, come le corone di Bel che galleggiavano sul lago, profumo di fiori e risate.
E quando il tempo verrà... saremo di nuovo uno.

V.