The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Imbolc 2011

Imbolc 2011

A cosa tieni veramente?
Te lo chiedi ogni tanto? Ti capita mai di tentare di escludere tutto ciò che non è veramente tuo, tutto ciò di cui in fin dei conti non hai bisogno? Metterli via, come i giocattoli quando eri bambino. E lo riguardi ancora, ogni tanto, quel balocco con il quale hai giocato così tanto, ormai dilaniato dal tempo. Ma senti che non è più tuo, anche se il ricordo dei momenti passati con lui è intenso.
A cosa tieni dei tuoi sentimenti, delle tue emozioni, di tutti quei piccoli riflessi che ti rendono ciò che sei? Di cosa non riusciresti a fare a meno? È come osservare il mare di notte. Specchio di stelle e luna e lampioni. In lontananza le increspature della sabbia sembrano tartarughe e i gabbiani banchettano. Come è oscuro, là steso nella notte. Sembra ossidiana scolpita a specchio del cielo. E sembra celare ciò che non conosci.
E forse l'oscurità dentro noi cela anche a noi stessi, a volte, ciò che siamo. Ce ne dimentichiamo. O forse la paura che gli altri sappiano ciò che siamo è così forte che siamo pronti a qualsiasi cosa pur che non lo sappiano. Bisogna arrivare ai minimi termini di sé per ottenere la consapevolezza reale. Il resto sono stronzate. Il resto è bagaglio; e il bagaglio pesa e diventa ingombrante. Prima o poi non riuscirai più a nasconderlo perché nessuno lo può portare per te e dovrai fare i conti con te stesso, con il peso di ciò che è stato e che nessuno potrà mai cancellare. Perché questo è ciò che facciamo ogni giorno: scrivere nel grande libro con un pirografo. E questa è anche la natura degli esseri umani: campare di ricordi. Questo piccolo alimento così amaro, ma che ci è così prezioso.
Forse proprio il fatto che non si possono cancellare dovrebbe darci modo di capire, se siamo abbastanza furbi (cosa che molte volte è evidente che manca), che non possiamo continuare a fare il gioco delle tre carte per sempre; se vogliamo farlo con noi stessi perché ci fa stare bene far finta di essere in ordine, ne siamo liberi, pagando le ovvie penitenze (dire, fare baciare, lettera, testamento), ma spesso, col resto del mondo, le cose non funzionano per sempre.
Ed è così anche il mare: sale e nasconde, scende e rivela. E i pesci si nutrono. Affondano come scafi di navi accompagnate alle urla e galleggiano come sorrisi. Via, in fretta. E il vento si prende ciò che deve e lo trasporta nel profumo sulle onde. Ah, fratello vento, quante ne avrai accarezzate di queste promesse. Quante ne avrai portate con te, tra le correnti ascensionali che fanno deviare i gabbiani. Perverse e dolci, come la malinconia, cui teniamo di più e ci aggrappiamo ad essa sempre. E sono giorni su giorni, contraddistinti sempre da quel qualcosa che è perduto, da quel qualcosa che probabilmente ti rendi conto di aver perduto e che ha reso la perdita ancora più dolorosa, se possibile. E perdere ciò che hai perso e che ti rende possibile ricordare di non averlo più, implica una ricerca ancora disperata di essere, di riuscire, di non arrenderti nonostante tutto. Sempre che tu ti renda conto di averlo perduto.
Ma in fin dei conti non so nemmeno se mi importa dei miei giorni che vanno, silenziosi e ciondolanti. Non so nemmeno se in fin dei conti io ho perduto. Perché a ben vedere non è nemmeno così. Alla fine dei giorni io mi sono liberato. Ed è ben diverso. Il prezzo è molto meno salato da pagare, ora che ho visto quanto è il conto. Almeno, per me.
E via, come i vestiti. Prima il cappotto, il saffi, le scarpe; le prime difese cedono. Poi il freddo si insinua sotto, quando passa la felpa, la maglietta, i jeans. Freddi i sassi sotto i piedi, gelato lo sguardo delle stelle.
A volte credo che non ci sia niente di ciò che gli dei tolgono che non venga rimpiazzato da qualcosa d'altro. Solo che talvolta ancora non lo sai, non te ne accorgi; allora credi di aver perduto. Ma non perdi in quantità. A meno che ciò che hai non lo rifiuti sin dal primo giorno in cui l'hai voluto. Allora in quel caso lo perdi per sempre, in tutte le forme che puoi anche solo immaginare. E non esistono streghe buone o cattive, come non esistono buoni o cattivi sentimenti e non esistono buone influenze. Ogni influenza è immorale, direbbe qualcun altro. Esiste solo ciò che noi proviamo dentro e ciò che ci porta a fare. Esiste ciò che siamo pronti a fare pur di ottenere ciò che pensiamo di volere, ciò che siamo pronti a pagare. Come una voce che canta tristezza e malinconia per il futuro come se fosse passato e pertanto vissuto e irrimediabilmente andato per il suo fiume. Esistono le cose che facciamo nella vita, esistono i ricordi di quelle che sono state fatte da altri e che sentiamo anche un po' nostre, per quanto ci è possibile. Esistono quelle albe che vorresti non vedere mai e quei tramonti che non desideri altro che arrivino il più in fretta possibile. Esiste quella sabbia che ti entra nel naso e in bocca, che promette calcoli, colecisti e coliche renali. Esistono quelle cose che non ti fanno respirare finché non sono lontane mille miglia da te ed esistono quegli abbracci che ti tengono al caldo quando l'aria morsica.
Dito contro il cielo, in alto. Bocca aperta, spalancata. Come siamo ignoranti noi stessi. Guardiamo e non vediamo. Polveri su di me. Si depositano. Come polvere ricoprono la mia vita. Si alzano come timidi fantasmi mentre cammino tra le basse dune e vengono portati via dal vento che mi spazza.
Nell'oscurità brancoliamo. La nostra stessa vita è il giardino dove noi seminiamo ciò che diventeremo. E se insegui fini nobili, quello che cresceranno saranno comunque alberi sani e forti e raccoglierai bellezza e amore e fiducia. Insegui fini bassi e biechi e ciò che raccoglierai sarà solo sfiducia, dolore e abbandono. È la legge di ciò che ci sta intorno, che vive.
Mi ricordo che mi hai abbracciato forte quando ci siamo visti lì a Bologna. Mi hai detto: "ne approfitto per quando poi non ci vedremo per un po'". Le tue braccia erano calde intorno alla mia vita e appoggiavi la testa, qui, sul petto. E mi hai guardato con quel sorriso largo, dolce, che hai passato alla tua bambina. Era il sorriso di chi ha lasciato andare. Era il sorriso di chi era pronta e l'ha visto. Come ti ho amata in quel momento. Hai visto la marea salire e discendere. E avevi il sorriso di chi ha visto i sorrisi tra le onde e ha tracciato simboli sulla sabbia; di chi ha strappato e gettato. Quello di chi ha chiesto e ottenuto; di chi ha atteso per anni la risoluzione di qualcosa che era in sospeso. E non hai avuto paura. Come quel film, a volte, mi viene in mente. E dice: "Tempra morale: allora, che cos'è la tempra morale? Vedete, è buffo! Una volta pensavo che fosse dire sempre la verità, compiere buone azioni, insomma in pratica essere un fottuto boy scout. Ma ultimamente ho cambiato idea. Ora credo che la tempra morale sia trovare una sola cosa di cui ti importa davvero, quella cosa che per te significa più di qualsiasi altra cosa al mondo. E quando la trovi combattere per essa, rischiare tutto, anteporla a tutto il resto: il tuo futuro, la tua vita, tutto quanto. E magari le cose che farai per ottenerla non saranno troppo pulite. Ma questo non ha importanza, perché nel profondo sai che il gioco vale la candela. Questa è la tempra morale secondo me". Ne è valsa la pena?
E come la marea, sale. Piccoli passi. Solo piccoli passi. Piedi nudi sulle pietre scivolose e l'acqua una distesa. Ma la marea sale. E salendo, salata stessa, purifica, gelata. Prima i piedi. È meno fredda di quanto sembra. La terra gira.
A volte la memoria ti spezza in due. Ti apre come una cerniera. Ti fa capire quanto i giorni a volte sanno essere passi tenebrosi se non potessi contare su chi ti è vicino veramente. Anche se a volte sono solo voci, che prendono la forma di parole. E conosco anche chi si scopa un'illusione. E va anche bene scoparsi un'illusione, certo, finché non si va a caccia di matrimoni. O almeno. Basta saperlo che è un'illusione. Tu lo sai che è un'illusione quella che ti stai scopando? Tutto ciò che sei, lo rimarrai, nella sostanza, nell'essenza, nella magia che ti fa aprire gli occhi ogni giorno. A volte perché qualcosa viva, è necessario che qualcosa muoia. Sia che siano sentimenti, emozioni, a volte anche ricordi. A volte devi nutrirli, a volte è necessario che anche la tua anima si nutra, se vuoi che viva. Ed è come fuoco di sterpi e tu ci danzi intorno, figura sconnessa. Nella notte, le mani incrociate, legate, i piedi che battono a svegliare le creature dormienti della sabbia, come lupi che corrono in tondo, la carne disciolta alla luce del fuoco, gli occhi spiritati. Che devi gettare per nutrire la fiamma? Cosa sacrifichi adesso? Affinché il fuoco rimanga alto e caldo, cosa ci getti dentro? Ti sentiresti più a tuo agio con un combustibile che non si agita?
In ultimo rimarranno solo ossa e brandelli. Finché non si spegnerà, fumante. Nell'oscurità il fumo non si nota, ma l'odore, prima o poi ti coglierà le narici, le addenterà, le farà pizzicare. E il fuoco sarà rivelato.
E la marea sale ancora. Piccoli passi. Le gambe non soffrono molto e nemmeno i genitali. La botta arriva quando vai oltre. Il fiato, via, spremuto tutto d'un tratto dai polmoni. Ecco perché Kate Winslet aveva fatto quella faccia quando è andata a cercare Di Caprio.
Oh come vorrei tu fossi ancora qui. Come vorrei che non fossi mai partita per quel luogo immensamente distante ad inseguire una vita dopo che la Dea si è portata via quella che avevi. Quante cose mi avevi insegnato in quei pochi tempi passati assieme. Con la tua arroganza e la tua prepotenza avevi dentro un gran cuore, un modo di passare le tue conoscenze e le tue esperienze come brezza tra i capelli. Come vorrei ancora una di quelle sere in giro, senza meta, a fare i gestacci alle videocamere dei benzinai con addosso delle stupide maschere di Halloween. Come vorrei sentire ancora l'odore del bucato delle tue assurde magliette femministe. Seduto su quel tuo divano, appoggiato sui gomiti mentre tu mi rimproveravi e rimproveravi ancora di prendere appunti mentre ti facevo domande senza senso. Come vorrei non averti lasciata andare via sapendo forse, dentro me, che Jemanjà infine ti avrebbe reclamata. E tu lo sapevi, vero? Tu lo sapevi che ogni singola cazzo di profezia che lei aveva visto nel calderone si sarebbe avverata. Tutte quante, nei metodi e nei tempi che erano decisi. Decisi da chi, poi? Da chi, cazzo, da chi?
Io riscopro. E rivivo. E rivedo. Ma incontro anche. Ciò che di azzurro scompare e rimane il grigio. Ma anche il grigio poi scompare e diventa bianco. E nel bianco le sfumature si perdono. Come essere senza casa. Né avventure, né luoghi da poter chiamare tale, senza che conti davvero dove e cosa sia. Il cambiamento perpetuo dentro noi, dall'azzurro al rosso, dal rosso al verde e dal verde al nero, non puoi fermarlo. E forse la cosa giusta, una delle poche, è proprio questa. Non sei al sicuro. Non lo sei mai. Il mondo è di vetro, senza pareti. Non c'è scampo. Non sei al sicuro. Scivoli spesso. E non c'è niente cui aggrapparti. L'acqua sale. La marea sale sempre. E porta con sé il sussurro della risacca. Là risiede e risiederà. E il salino e gelido sapore dei tuoi flutti ne riempirà la gola. E affonderà nell'oscurità del tuo abissale abbraccio senza che mai più possa rivedere la luce. Nella tua stretta di alghe e madreperlacea tridacna, tra le fauci dello squalo e il veleno del pesce palla, sul borbottio delle balene e il pungere della medusa, tra le scaglie del guscio di testuggine e il tocco urticante dell'anemone rimarrà insabbiato, come una sogliola e un paguro, sul fondo del mare, dove gli abissi oscuri non sono raggiunti da nessuna luce, dove il calamaro gigante lotta con il capodoglio e dove fantasmi di navi spettrali giacciono corrose dai tuoi morsi. Nelle profondità insondabili dove niente sopravvive e dove il freddo è così pungente da assiderarti e schiacciarti e dove tu comunque regni, ivi giacerà, sommerso, defraudato dalle incrostazioni calcaree, divorato dai bianchicci granchi dei fondali che ne strapperanno bocconi con le piccole chele.
Un ultimo urlo (aiuto? offerta? maledizione?) e poi l'acqua entra nella gola, salata, riempie le orecchie, il buio assale gli occhi, il freddo incide i suoi moniti sulle ossa, graffia la carne, scolpisce ogni tuo urlo sui muscoli. Fredda maceria di antichi merli disfatti dal tempo di una fortezza mai più abitata. Nessun pettine a terra, da cogliere per ricordare che: qui ti spazzolavi, qui giacevi, qui mentivi. Sollevati e cogli. Squame verdastre per gambe e stelle marine per occhi; alghe i capelli e gorgoglìo la tua voce. ἀλήθεια. Ecco cosa urlano quel graffi e quei morsi. ἀλήθεια.
Come avere bucaneve che sbucano dalla pelle e fiori bianchi negli occhi, che sbocciano sulle dita. Fuori da ogni umana concezione. Al di fuori di ogni possibile umana concezione. O forse concezione più umana di quanto si possa immaginare, ma spogliata di ogni tipo eclettismo morale, etico. Storpiata la stessa natura delle cose, contorta come Coatlcihuatl, ma priva di alcun tipo di saggezza che possa giungere, ignara della sua stessa natura. Ecco, sì. Adesso io ti riconosco.
I lunghi tagli si rimarginano e un sorriso si apre come la ferita scucita di una bambola di pezza. Nessuna danza questa volta. Nessuna luna. Nessun fuoco. Solo il vortice che sale come la marea ancora e ancora. Mai più. Mai più. Mai più, dicono le onde che dialogano con gli scogli nella loro lingua fatta di borbottii e rigurgiti. Al di sotto è tutto diverso dopotutto. L'oscurità ti accarezza, ti sorride. Qualcosa splende, che cos'è? Si allontana, ritorna, segue la corrente e i movimenti. Senza alcuna paura. Se ciò che deve succedere succederà, non si può evitare. Un altro urlo, agghiacciante, che sale da dentro lo stomaco. ἀλήθεια. Le mani al cielo allora, quando tutto si asciuga. Corsa sulla sabbia e i sassi per un caldo abbraccio. Come il tuo di Bologna, ancora vivo, qui sul cuore. Anche nella più buia oscurità il punto di luce splende. Dall'altro capo della collina, la singola fiammella della candela si rivela. A niente serve nasconderlo. E poi è come un'altalenante vibrazione e dita sulla pelle. Due secondi, due passi ancora. Come rivedrei il tuo sorriso. Il tuo modo di guardarmi chinando la testa leggermente, nascondendo gli occhi sotto i capelli. E sì che mai ti ho baciata. E sì che ancora mi chiedi perché non ci siamo parlati già quattro o cinque anni fa. Le tue mani colte nel momento sacro e tu sei tornata. Per che motivo poi? E lo chiedi a me perché?
Scatenata la notte. Il tramonto rifuggito da tempo ormai. Sul campanile segna l'ora che volge. Pallide ombre negli occhi e liberi siano coloro che sono stati convocati. Disciolti i legami per i peregrini spiriti e che ai verminosi letti facciano ritorno. Una singola goccia scende lungo la schiena, a memoria di salino abbraccio. Abbandonata la paura che mai ha preso piede; solo determinazione, mai esitazione e due passi, tre ed eccoti lì, tra gli scogli. Creature banchettano di sorrisi. Solo un momento. Come cadaveri che galleggiano sotto il pelo dell'acqua, le carni livide e flaccide. Sono uno che mette da parte. Conservo ancora cose con cui potrei ferire in modo abnorme e non lo faccio per ferire. Liberi siano i draghi e le fenici. Siano liberi di accumulare o di rinascere. A scelta. Come siamo liberi di essere vittime o carnefici. La cosa importante è sapere quale ruolo scegli e se davvero te lo scegli. E liberi di capire che si fa una volta ciascuno. E liberi anche di non credere che tutto compie un ciclo e che prima o poi ogni cosa, ogni singola cosa, torna al mittente. Come una biglia che scivola sul velluto oscuro del tappeto stellato ti vedo splendere lassù, Eveline, eterna lucciola mai stata lucciola. Ferma e stanziale. Immota nel tuo cardine per i viaggianti. Qualche parola sussurrata. Un sorriso. Non c'è malizia, alcuna malizia. Anche in triplice forma, innanzi. Eccoti; io ti riconosco. Vergine dalla veste color porpora, i capelli scarmigliati e la crescente sul terzo occhio. Madre dalla veste bianca, lucida, lo sguardo deciso e la luna piena sulla fronte. Saggia con la corona e il telo nero, signora della calante.
Le richieste brevi, leggere, come aliti di falena. Sospesi e imprigionati come nella tela di Shelob o tra le spire del Grande Serpente o nel guscio della Tartaruga che vomita gli universi fin là dove vive e regna la Divoratrice di Mondi; sempre affamata.
Spalanca le braccia. Accoglimi. Non ci sono altre mura da bruciare. Impilati sono i ricordi, gli oggetti e ciò che non è tornato non è perduto ma regalato. Parola di lupetto. Nessun legame. Tranciati come ali di farfalla con le cesoie di Atropo. Un colpo netto, senza far cadere il ramo a terra, come vuole l'antica tradizione. Oh come vorrei che fossi qui. Come vorrei che tu, proprio tu, fossi qui. Nei tuoi anni e anni e anni di esperienza che mi calavano addosso come martelli, come vorrei vederti sbuffare quando non ascoltavo. Come vorrei che mi dicessi ancora che avresti scalato a mani nude l'Everest per lei se fosse servito a qualcosa. E come ti credevo, sdraiato senza desiderio in corpo. Ho imparato. E sono risorto. Proprio come dicevi. E sono ciò che sono. E non sempre ciò che voglio essere. Non ci sono più mura da bruciare. Ho lasciato le luci spente solo perché temevo di vedere. Ma ora ho visto. Ho visto perché il figlio è sorto. So che sorridi, vecchia volpe. E ora posso guardare allo specchio l'immagine che rimanda e sapere che sono io. E che non ci sono più mura da bruciare. Mi siedo, accendo una sigaretta al sapore di cioccolato. È vero, sono più forti di quanto paiono. Sorrido per chi si incupisce quando mi vede fumare. Distinguere ti amo da ti voglio bene è solo sfumatura della lingua italiana; hai ragione, piccola. Ma alcune volte devi conoscere il sapore della sabbia in fondo all'abisso per darti la spinta per tornare in superficie.
Seduto osservo. Grande è la pila che si contorce fumando di nero e grasso sapore di arrosto mentre brucia. Un altro sorso di Cuba Libre come rasoio in bocca e poi mi stendo, schiena sulla sabbia, le cuffie del tuo I-Pod 8 GB nelle orecchie (solo in prestito per queste righe, honey), la mia compilation special di 1162 canzoni, regalata a te che sei speciale, gira in continuazione: dai Depeche Mode alla Berté, da Johnny Cash ai Pink Floyd. Mamma, devo costruire un muro? Mamma, è tutto uno spreco di tempo? Alzo il volume. Se no non mi concentro. E poi è così, come dicono: non c'è dolore, stai solo scomparendo. Come il fumo di una nave lontana sotto l'orizzonte, arrivi solo a ondate. Le tue labbra si muovono ma io non sento cosa stai dicendo. E quando ero bambino sono stato malato. Le mie mani mi sembravano due palloni. Ora ho di nuovo quella sensazione, ma non posso spiegarmi, perché non capiresti. Non sono così. Sono diventato comodamente insensibile.
Quant'è grande la volta del cielo. Grande Benigni, la sa lunga pure lui. La bellezza è proprio cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere. Spogliamo anche noi i fichi del paradiso terrestre per trovare la foglia giusta? E solo così puoi vedere il cielo. Ah! Che risate. Il forte bagliore del falò si riflette sulla mia pelle e mostra pipistrelli di fuliggine che si allontanano silenziosi. Allungo la mano a prenderli. Eveline, splendi ancora? Sì, ci sei.
Ti ricordi quando eravamo là, in quel bosco? Che cipiglio a pensarci. Così tanti cerchi. E poi alla fine ogni cosa è diversa. Come fare l'amore. Lasciati guidare dal singolo piacere fisico e questa cosa ti consumerà. No. La festa imperversava. E c'erano Jim & Jim su quel piatto antico che frusciava e il tipo che rollava quello spino parlando lentamente. E uno è venuto da me e mi ha chiesto se poteva infilarmi la lingua in bocca. E io gli ho risposto che non ero gay e lui mi ha risposto che nemmeno lui lo era ma che in quel momento nel trip che si era fatto la trovava una buona idea. E allora gli ho detto che non ero d'accordo con quello che lui considerava una buona idea soprattutto quando era in trip e così si è alzato e se ne è andato. E poco dopo, ti ricordi? Era su quel materasso nell'anticamera di quello scantinato a fare sesso con quella ragazza completamente ubriaca. Avevo il mio cappello da cowboy anche quella volta e gli stivali neri, quelli che facevano rumore quando camminavo sfregando i tacchi. E l'aria era freddissima fuori, quando siamo usciti a prendere una boccata d'aria e odoravamo di Jim Morrison e Jimmy Page. Jim & Jim. Passavano macchine come dischi volanti su quella strada e io ti ho vista e ho saputo che era finita. Con quei tacchi altissimi e i capelli svolazzanti, eri sexy. Ma mai due volte la stessa stronzata. Già. E ci siamo ritrovati, come i quadrati neri della scacchiera. Vicini ma mai attaccati. Ancora e ancora. A me, sai... lei non ha mai regalato niente, come invece ha fatto con te. Danziamo, ti va? Non lo faccio mai con nessuno; pesto sempre i piedi. Ma stavolta ti faccio volteggiare come nella grande danza del Gattopardo. Cosa c'è di sacro nella tua vita?
Il sale si asciuga. Il sapore va via. In fondo tutto è stato soppresso, schiacciato. Una volta dissi, sai, che la morte è un orizzonte e che un orizzonte altro non è che il limite estremo dove possiamo stendere il nostro sguardo. Quando sei andata via, lasciandoti dietro la morte come cambiamento ma comunque morte (e come dice una mia saggia amica la morte fa male comunque, qualsiasi aspetto prenda) io non ti ho nemmeno salutata perché pensavo che saresti tornata. E capisco, sai, che cosa significa ora il pensiero della leggerezza, come quando si voleva andare a vedere i Nirvana suonare e per un caso fortuito non ci si poté andare e si disse: "Sarà per la prossima volta". Poi Kurt Cobain lascia orfana la figlia tra le braccia di Courtney Love con una doppietta infilata in bocca e ti dici: "Ma allora non ci sarà una prossima volta".
Chissà dove cazzo sei ora. E come vorrei tu fossi qui a dirmi che devo fare. A dirmelo col tuo tono imperativo, da dito puntato. In tutto questo tempo, nel correre e nello scorrere delle lancette e dei giorni e dei mesi e degli anni mi sono spesso domandato perché io. E mi sono domandato ancora perché tutti gli altri prima. E ad uno ad uno svanivano, mollavano, sparivano, si ritiravano. E quando parlavi e chiedevi: come mai? Ti rispondevano cripticamente come si fa coi neofiti: "il tempo è giunto". E che poco senso poteva avere quella risposta quando molte cose non erano chiare e quanto senso aggiuntivo acquisisce ora che gli anni si accumulano e accumula il peso dell'ipocrisia, dello schifo, del marcio che ci circonda, della spiritualità insultata per raggiungere il mero fine del potere fine a se stesso (nella stupidità tra l'altro di non saperlo nemmeno riconoscere perché di base, l'eseperienza si chiama così perché bisogna farla e un bambino può anche leggere Les Fleurs Du Mal e impararli tutti a memoria in lingua originale o anche l'Amleto stesso, ma mai capirà la sfumatura che il grande Charles o il vecchio Bill davano a quelle parole, al dilemma del principe e della sua follia finché non avrà abbastanza rughe sul volto e abbastanza stagioni sulle spalle per riconoscere i differenti sapori e colori di ogni singolo lemma scelto - perché la bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere). E poi il potere. Che cos'è il potere se non sai di base che fartene? Ti sfugge tra le dita come la sabbia di una clessidra perché non è tuo, ma lo prendi in prestito. Da un ombrello all'altro solo perché hai paura della pioggia e ti piace scroccare passaggi sapendo solo che qualcuno che te li dà lo troverai sempre? Adesso capisco tutto. Chiarissimo. Come la veste della mia sacerdotessa questo sabba. Eccolo lì il motivo. Loro avevano visto. Avevano capito. Il tempo è giunto. Non lotti per qualcosa d'altro che per te stesso. Ma il mondo affonda lo stesso nelle mani di persone che defecano nel piatto in cui hanno appena finito di mangiare e loro se ne erano accorti. Lo avevano visto già anni fa e hanno detto: "Almeno non sarò vostro complice". Un po' come i delfini nel libro di Douglas Adams: "Arrivederci e grazie per tutto il pesce!" E poi siamo qui ad onorare gli dei, nelle forme che desideriamo, non a pararci il culo per le nostre azioni cercando giustificazioni assurde per non prenderci le nostre responsabilità perché non vogliamo crescere, diventare adulti e perché la torta di merda che abbiamo cotto in forno comincia a puzzare e non troviamo nessuno che vuole mangiarla al posto nostro, dato che vogliamo avere sempre il nostro sorriso smagliante e l'alito fresco.
ἀλήθεια. Ciò che è vero risplende da sempre. Lo dicevano ancora tempo fa, su quel vecchio sito ormai inesistente. Loro avevano capito. Loro avevano visto giusto. E anche tu avevi visto giusto e te ne sei andata via. Se fossi qui mi prenderesti per le orecchie e mi tireresti una craniata in mezzo agli occhi. Me l'avresti tirata un anno fa. Ecco perché vorrei che fossi qui. Anche per quello. Non solo per sentire l'odore dei tuoi vestiti che sapevano di detersivo fatto in casa alla lavanda e limone, ma anche solo per guardati e chinare il capo e dire: "Avevi ragione tu".
Alta è la pira. Mi passi un'altra sigaretta al cioccolato? È l'ultima questa sera. Tanto il Cuba è annacquato ormai ché il ghiaccio si è sciolto col calore del fuoco vicino. Ma cazzo se fa freddo. I gabbiani si stanno spartendo un banco di pesci al largo. Un tronco immenso è adagiato là, dove costruivo invincibili castelli di sabbia a prova di assedio. Nella notte pare una balena spiaggiata e morente. (È un mio regalo. Sono tutti miei regali!). Dentro credo che impiegherò anni ad asciugarmi. Fuori ci sono voluti pochi istanti, ma dentro il mare non si ritirerà tanto presto.
Pochi passi e lo traccio. Sali presto, sali, su, avanti, stiracchiati sul bagnasciuga, consumalo, forza!
Eccola che arriva, col vestito bianco di spuma, le mani di salsedine; sembra prendere forza, si fa indietro come una molla e poi sale sale sale sale e sale ancora. Quando sparisce non c'è più traccia. È andato.
Negli abissi, nei baratri, negli orridi sommersi di quei mondi insondabili, dove i tritoni e le sirene spiraleggiano in circolo, là giacerà per sempre. E che io non debba mai più sentirlo.
È tempo ora. I piedi affondano. Piscia su quel focolare ed estingui le ultime tracce del suo passaggio su questa terra. Ha il suo giusto luogo dove riposare per l'eternità, o quanto meno finché esisteranno gli oceani. Di sicuro più a lungo di quanto io possa vivere questa vita.
Voltiamo le spalle sorelle e fratelli. È andato, ora.

D.