The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Litha 2010

Litha 2010

Alcune cose le hai nel momento giusto, ma magari non nel modo in cui avresti voluto... e dico, anche solo per un istante. Quell'istante che ti possa far dire, magari un giorno non molto lontano: "okay... l'ho avuto". È stato mio, l'ho posseduto, mi ha sfiorato... ne porterò con me il ricordo per sempre. Un po' come mettere la firma su qualcosa che si ha visto. Un po' come se fosse una sorta di fame, qualcosa da nutrire. E come diceva Goya nella commedia "Dialogo Da Colossus", certi uomini devono riempirsi la bocca, io devo riempirmi gli occhi. L'appetito dopotutto può avere diverse forme e manifestazioni e alcune cose ti capitano quando sei sazio e non le puoi assaporare, non le puoi gustare nel modo giusto. E quando magari ti ci sforzi, tenti di prenderle lo stesso, ti sembra che non abbiano sapore, o a volte semplicemente è un gusto alterato. Un po' come quando mangi qualcosa di dolce e poi bevi il caffé. Anche se zuccherato ti parrà sempre amaro.
A volte credo che questo faccia parte della crescita. È una di quelle cose che va accettata. E una di quelle cose della crescita che non per forza ti devono piacere. Ma dopotutto... riflettendoci... A priori che cos'è il "mai"? A priori non esiste. È un po' come il sempre. Infatti a loro è concesso esistere realmente solo a posteriori, quando tutto è concluso, o magari oltre. Dopotutto, che ne possiamo sapere? Cazzo, alcune cose le hai nel momento sbagliato. È un dato di fatto. Le hai quando non te le puoi godere. Il mai o il sempre li hai a posteriori perché la carne limita il pensiero; lo relega al limite del disfacimento, ne scandisce il tempo prima che tutto ricominci di nuovo e ci si dimentichi chi siamo stati, cosa abbiamo fatto, chi abbiamo amato, per cosa e come abbiamo vissuto, ci siamo battuti. È questa la grande presa in giro: anche se sai che ci saranno altre vite, vivi in funzione di quella che stai vivendo adesso, legando la mente, il pensiero al corpo fisico e alle sue funzioni. E questo perché sappiamo che dimentichiamo tutto prima di ricominciare una nuova vita dopo la morte. Alcune volte pensi che questa cosa possa in un certo senso... tutelarti dalla sofferenza del perdere, perché credi che possa darti una certa consapevolezza che la ciclicità del ritorno ti riporti ciò che hai amato, anche se in modo diverso. Ma a volte questa consapevolezza non ti tutela e un addio ti sembra sempre eterno, perché lo vivi con quella forza, con quell'intensità, con quel modo di essere. Ma quanti addii diamo che poi non sono tali nemmeno in questa vita? In parte è anche quell'infantilità di usare a sproposito le parole con connessione temporale indefinibile dal nostro limitato punto di vista umano. In parte è anche perché a volte ne abbiamo bisogno per sentirci bene. Capita a volte che la sola sensazione di perdere qualcuno ti assalga come il morso di un'aspide nascosta tra le rocce; basta la sola consapevolezza lieve, come un dito gelido che ti sfiora la schiena, come una brezza che spira su un lago, torcendo lingue di nebbia, come la coperta e il sipario che avvolgevano l'isola di Avalon; arriva lì, ti invade e ti abbraccia, stringendoti in una morsa. Giunge di soppiatto, con quei gelidi passi assassini che ti risuonano sordi nel cuore. Il disorientamento ti assale. Ecco che pensi a ciò che hai avuto, se lo hai avuto nel modo giusto, in quello che volevi... o se lo hai avuto per un puro colpo di fortuna e per una serie incredibile di coincidenze o di congiunzioni karmiche secondo le quali dovevi averlo quel poco che ti bastasse per maturare della sua presenza nella tua vita e poi via... ti è stato sottratto, come doveva essere. Piaccia che sia così. Se la Dea lo vorrà. Così sia e così sarà.
Una canzone meravigliosa che conosco diceva: "Ho vissuto con un'ombra sulla testa, ho dormito con una nube sopra il letto". È una di quelle canzoni che ti frullano per la mente quando non hai un cazzo da fare, quando sei in attesa di qualcosa. Capita che magari la canti quando sei in giro, magari chessò... all'ospedale con tuo figlio, tornando dalla zona caffé con una di quelle "bevande al gusto di cioccolata" che il tuo piccolo non berrà mai perché obiettivamente non è cioccolata, in quanto è solo una bevanda che ha "il gusto di" e senti uno strascico della frase pronunciata dalla voce dell'infermiera che compila il foglio di ingresso al pronto soccorso. Una perdita di sangue, minaccia di aborto. Allora ti volti e vedi che vicino alla colonna c'è una donna seduta su una sedia a rotelle; è gravida. Sta singhiozzando e ha i colori cupi come nembi violacee, in movimento. E così vedi le ombre delle cose che ti sfiorano. E magari infili la mano in tasca e hai una rivelazione, come un colpo improvviso, una scossa elettrica. Allora ti avvicini ed estrai una pietra che hai in tasca per caso, quella corniola che hai con te da tempo e che non ti serve più. Allunghi la mano, prendi la sua, le apri le dita e gliela appoggi sopra, poi gliele richiudi e le sorridi. Tra le lacrime è disorientata. "Protegge le donne in gravidanza", la rassicuri. Poi le accarezzi lievememte la testa. "Grazie", ti dice tra le lacrime. E vedi che un bagliore di sorriso squarcia quell'oscurità che le gravita attorno come nembi gravide elle stesse.
Tu sai che in un giorno normale non ci avrebbe creduto. Ne avrebbe riso. Si sarebbe attenuta solo al parere del ginecologo. Non si sarebbe mai e poi mai affidata ad un dono di uno sconosciuto, per di più se questo girovagava per il pronto soccorso con in una mano una "bevanda al gusto di cioccolata" e nell'altra un bambino di cinque anni. Per di più poi se il suo dono... beh si trattava di un semplice sasso. Ma come cambiano i colori del mondo quando la paura di perdere qualcuno o qualcosa cui tieni si affaccia alla tua porta! Oh già. La senti arrivare dal vialetto a volte. I passi sulle scale del porticato. Il lieve raschio delle suole sulla stuoia per pulirsi. E poi il campanello che trilla, insistente. E tutto questo ti fa capire che tutto può cambiare in modo irrimediabile. Ti mette di fronte questo specchio e ti costringe a guardarti. Ti tira su la testa dalla tua apnea voluta, strattonandoti per i capelli e ti sussurra all'orecchio sinistro: "guarda". Ecco che il mai prende senso tutto d'un tratto. Ed è una di quelle badilate sulle gengive... che arrivano d'un tratto, di taglio, appena sveglio. È come il dolore dei fogli che ti tagliano tra le dita, del gatto che si fa le unghie sulla tua coscia mentre dormi, della mano poggiata sul cactus quando stai per cadere. È quel dolore improvviso di chi ti strappa i peli alla sprovvista, di quando prendi dentro con il mignolo sugli spigoli, di quando allunghi la mano e cerchi la persona che ami a fianco a te, ti rendi conto che non c'è e senti dentro quella sensazione di tale profondo, sconfinato abbandono. Quel dolore dietro gli occhi, come spilli nelle orbite, che ti assale sempre a tradimento, in una di quelle bigie giornate in cui ogni cosa ti va a noia, in cui sei a casa ad osservare la finestra e non hai tasche dove infilare le mani, quando hai provato a leggere ogni tipo di libro che hai nella tua libreria ordinata con minuziosa catalogazione Dewey, quelle in cui vorresti mangiare qualcosa di dolce ma in casa hai solo Pringles e anacardi tostati, quando apri il frigo e tutto ti fa schifo, quando ti pare che anche le lampadine si stiano annoiando. E allora ecco che giunge il mai. Tutte le cose che non consideravi, che avevi progettato. Tutto ciò che tu credevi fosse lì, bello stabile, su una montagna di granito, in realtà sta dondolando in modo preoccupante. Ecco che si affaccia il mai. E ti rendi conto che qualcosa è grande per te solo quando stai per perderla. Non ti rendi conto della sua importanza prima. E quanto cazzo fa paura il mai quando non ti riesce di ragionare sulla linea della teoria dei livelli, oltre che su quella delle polarità. Io so che quella madre, in ospedale, ha accettato quel dono da me come qualsiasi persona che sente la paura mettergli una mano sulla spalla accetta un palliativo per avere fiducia, per credere che tutto andrà bene. La differenza è che io so che non è stato un regalo gettato a caso; io so che non è stato un caso che io avessi in tasca da tempo proprio una piccola agata e che mi trovassi a passare lì, in quel momento, proprio mentre l'infermiera prendeva appunti sulla "minaccia d'aborto" ad alta voce, denundando quella povera aspirante puerpera di tutte le sue angosce, davanti a chi passava e poteva sentire e provare pena e disperazione per lei. Le coincidenze non esistono in magia.
E io gliela ho letta negli occhi la paura. Le colava sul volto con le lacrime, le scioglieva l'espressione, la faceva a pezzi come uno specchio rotto. E mi chiedo... ma quando mio figlio è stato male e ha rischiato di morire ad una sola settimana di vita, ormai più di cinque anni fa, ed io mi aggiravo per quegli stessi corridoi, come un cervo pazzo, chiuso in gabbia, prendendo a cornate le persone, le porte, le infermiere, i muri. Avevo anche io quella espressione? Credo proprio di sì. E se qualcuno mi avesse detto che il mai non è mai perché ci sono altre vite, ci sono altre vie, altri incontri... e ciò che siamo ora lo saremo in modo diverso in un altro luogo, seppur conoscendoci, riconoscendoci, amandoci di nuovo nelle promesse e negli impegni che ci prendiamo ora, io avrei accettato una possibilità come quella senza aggrapparmi anche ad un singolo pezzo di merda secco che una persona qualsiasi, che passava da quelle parti in quel momento folle e surreale mi poteva offrire? Non ci avrei pensato un singolo istante. E se avessi avuto le mani occupate lo avrei preso con i denti. E avrei anche ringraziato a bocca piena.
A volte penso, sai... che alcune cose, per quanto servano per crescere, non ti lasciano quell'insegnamento che dovresti cogliere, non nel momento in cui ti capitano. Devi metabolizzarle e cogliere l'insegnamento che sta dietro, come un sogno dentro al sogno, un viso riflesso nello specchio. A volte siamo proprio così, come soli spenti, stelle negative. È come se ci si ritrovasse con il mondo rivoltato come un guanto, come se Ecate ad un tratto fosse priva di volto. Come il finale del film Dellamorte Dellamore, quando il protagonista, che nella sua semplice vita di guardiano del cimitero e dei suoi abitanti che se ne vanno a spasso non ha mai visto altro, esce da Buffalora e scopre che il resto del mondo non esiste. Ci spiazza dover pensare a qualcosa di definitivo, accettarlo, viverlo, sentirlo sulla nostra pelle. Siamo condizionati dal dogmatismo del movimento, della rotazione, del ciclico rincorrersi. È pazzesco, ma viviamo in funzione del singolo bicchiere di birra che abbiamo davanti, non del fusto che sta dietro al bancone e che ce lo può riempire nuovamente.
Una volta lessi di un tipo che era tornato dalla morte. Sapete no, quelle esperienze di premorte: la luce, il tunnel, il riesame della propria vita ecc.. e una sensazione di pace infinita. Sta di fatto che si risveglia e torna qui. Qualche anno dopo cade dalle scale e rischia di rimanerci secco. Nel capitombolo ha raccontato di aver allungato le mani e tentato di frenare la caduta. Sosteneva quindi che la conoscenza della morte, nonostante sapesse che ciò che l'aspettava era solo bellezza, non aveva per niente inibito il suo istinto di sopravvivenza. Io mi rendo conto che vivo la mia vita come se fosse l'unica e non in funzione delle altre che ho vissuto e che vivrò. Lo faccio negli errori, nelle prese di posizione, nelle decisioni stesse. Anche se non so cosa sarò domani e non so cosa sono stato ieri (non proprio) faccio fatica a pensare al mai rapportato sul posteriori e non a priori.
Cazzo non sarebbe più facile se riuscissimo ad accettare chi viene e chi va dalle nostre vite senza aggrapparci alla bellezza della forma pensiero di ciò che quelle persone giungono a rappresentare per noi nel corso dei giorni, delle settimane, dei mesi? Io so di essere capace di amare. Lo so. E cerco di dimostrarlo, anche se talvolta inciampo. E ci sono momenti in cui non me ne frega un cazzo se so che esisterò di nuovo, che il mio ciclo non si concluderà con questa vita e che le cose saranno legate qui come lo sono state nelle vite del passato. Ci sono momenti in cui mi rendo conto che questa cosa non mi consola, il fatalismo non mi rende tranquillo. Ho bisogno di urlare, di piangere, di spaccare l'intero arredamento come Nicholas Cage proprio adesso, non nella prossima vita. Il fatto che nella prossima vita avrò l'opportunità o meno di essere felice e se avrò modo di capire che farne, se conserverò il sostanziale ricordo di ciò che sono state le mie esperienze: lo schiaffo e la carezza, il pompino e l'abbraccio... tutto questo non mi rende diverso da ciò che mi sento ora. E in funzione a ciò, le mie vite future ora non hanno peso.
Ecco che qui il mai non ha senso se non in funzione di ciò che si protrae per diverse vite, che sia l'amore per una donna bellissima che ti sta a fianco per cullarti quando hai brutti sogni, per prendere le tue parti quando stai male, per mandarti gli sms dicendoti che ti ama anche se avete appena litigato; che sia anche l'amicizia di persone lontane che non hai ancora avuto l'occasione di vedere e abbracciare ma che ti fanno sentire la grandezza del loro affetto, o anche solo il caldo profumo delle violacee infiorescenze di glicine che, come grappoli, rilasciano il loro muschiato umore in questo periodo, o il leggero lamento che fa il tuo cuscino quando, stanco morto, ci poggi la testa sopra per dormire un'altra notte. E queste cose ti scorrono dentro come acqua, scivolando via, ma lasciando la memoria di qualcosa dentro te. La consapevolezza di averli nelle prossime vite se le perdi in queste... non sono però mai abbastanza forti da vincere la disperazione e il disorientamento che ti assalgono quando la paura di dover usare "mai" in questa singola vita si affaccia su di te come un attore che deve entrare in scena. No... dobbiamo solo imparare a convivere con questa cosa, accettarla, digerirla e vivere la nostra vita e quelle future come meglio possiamo, benedicendo chi ci ama come chi ci fa del male, perché l'insegnamento ci giunge da entrambe le parti e in maniera non eguale, purtroppo.

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