The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Litha 2016

Litha 2016

Cambiano le prospettive al mondo. Voli imprevedibili ed ascese velocissime, traiettorie impercettibili, codici di geometria esistenziale.

Un giorno sarebbe semplicemente cominciato. Mai più prigioniero, mi sarei detto. Mai più inseguito. Solo sentieri e stelle. Come quella canzone dei Nomadi che una volta mi chiesero di cantare in una notte improbabile di ferragosto, su quella spiaggia ancora calda di sole accumulato, e che a pensarci ora sembra lontana migliaia di chilometri. Ed era una notte che mi pare vecchia di secoli, invece che di anni. E la sentivo davvero: il vento sulla pelle, sul corpo il calore delle stelle. Sulla bocca avevo il desiderio ardente di un bacio che non è mai arrivato e che ora mi sembra solo uno di quei momenti che sarebbero venuti e passati, semplicemente, come le onde del mare. Perché forse saturo di abbracci ho avuto bisogno di un camino per le mie braci.
Una cara amica un giorno mi disse che per le donne era tutto diverso. Loro prendevano l'amore a volo libero. Io, che ero appena uscito dalla mia prima relazione importante, stando a sentire quelle parole provai l'immensa e imperturbabile sensazione di essere fatto di piombo, come un falco arcigno che si era strappato le ali a morsi, piuma dopo piuma. E mi sentivo come manchevole perché non riuscivo a capire cosa intendesse "prendere l'amore a volo libero", ma sentivo che dentro ero lontano anni luce da quella sensazione. Io che l'avevo vissuto con compartecipazione, con costruttività; perché nell'incoscienza credevo che fosse come esistere in forma riflessa, quasi simbiotica. Ma trovavo passione, poesia e bellezza in questa manifestazione; come i cirripedi ancorati sulla pelle di una balena. Ma nella mia corsa alle risposte non mi ero mai soffermato a domandarmi se il primo pensiero di una balena, nel qual caso un bel giorno si fosse fatta crescere un pollice opponibile, fosse quello di strapparsi quei cirripedi di dosso.
Poi ho gettato incantesimi al vento; non tante volte, certo, ma anche quello l'ho fatto. E mi ricordo di una volta in particolare, ed ero su una scogliera che dava su una piccola baia dove da ragazzi si andava a pescare polpi. Non ricordo più per cosa fosse quell'incanto, forse solo perché dovevo. E nel mio immaginario le ceneri avrebbero vorticato, sollevate gentilmente, prese per mano dal vento in una danza dolcissima, accompagnate oltre il baratro profondo e dantesco, ma senza precipitare e via, come un aeroplanino di carta che attraversa l'oceano grazie a correnti ascensionali, su ad accarezzare le nuvole, a bagnarsi nel sole, cullato dolcemente anche nelle più terribili delle tempeste. Là, fino al fine ultimo della mia richiesta, in luoghi remoti, esotici e distanti, dove puoi volare con gli occhi e guardare con le ali; oltre anche la quiddità.
Nel tempo e con dolore, ferendomi le mani e graffiandomi il volto ho imparato che l'amore è qualcosa che non smettiamo mai di sforzarci di capire. È come distendere lo sguardo fino ad un orizzonte più remoto dell'Australia, vedere i confini come linee curve. E non pensavo a tutto il tempo che ho speso a cercare di capirlo e che era tempo perduto, di fatto. E potevo investirlo, invece. Un investimento importante, perché come è vero che Ratzinger sembrava Palpatine, non ci viene regalato un cazzo nella vita. Soprattutto in termini di tempo. Investirlo cercando di viverlo, di godermelo, di assaporarlo senza smontarne gli ingredienti era forse la cosa migliore che avrei potuto fare della mia vita. Ma non ne ero in grado; come quando ho assaggiato il Pad Thai per la prima volta e volevo capire cosa producesse quel retrugusto che lo rende un piatto unico, geniale e delizioso. Ecco, forse cosa intendeva Joy quando mi indusse a capire che non ero capace di prendere l'amore a volo libero. Perché la verità è che non capivo cosa intendesse proprio per il fatto che non sapevo come fare. Era come un arcano per me. Perché mi muovevo sul già visto, sul già vissuto. E se camminavo a testa alta, era per guardare il cielo e seguire un sentiero. Già, solo sentieri e stelle. E magari quadri. Sì. E fette di cielo in cui specchiarsi. Riflessi di azzurro e nuvole da mangiare come se fossero fragole e ciliegie.
Poi ho cercato di fare dell'invidia il mio peggior nemico; della costanza un alleato; della coerenza un principio. Ho cercato di imparare ciò che desideravo insegnare prima di insegnarlo, ma non sempre ci sono riuscito. Ho cercato di ascoltare per capire e capire per accettare. Ho studiato meno di quanto avrei voluto, ma soprattutto quando avrei dovuto. Come sabbia che scorreva, granello dopo granello spesso ho atteso e mi sono detto che sarebbe stato facile. Ma non ho accarezzato sogni con la stessa facilità con la quale ho accarezzato seni e forse avrei dovuto, perché più passano gli anni, più la consapevolezza cresce e con essa diventa sempre più difficile ricominciare, per ovvia conseguenza.
E poi è il tiepido sospendersi. Quella sensazione di vuoto allo stomaco, come quando sei sulle montagne russe e affronti la discesa e sembra che il tuo apparato digerente sia rimasto indietro, fermo, sospeso in aria e che sia strappato a seguirti come un cane al guinzaglio. E senti l'adrenalina del volo che si condensa in un urlo arroccato dietro i denti. Non vorrei di meglio. Perché credi di riuscire a realizzare in un istante che la libertà è essere liberi di essere. E nessuna Duchessa ci potrà mai respingere a morali asserendo che non bisogna mai immaginarsi di non essere altro che quello che potrebbe sembrare agli altri che ciò che eri o potevi essere stato non fosse altro da ciò che eri stato e che avrebbe potuto loro sembrare essere altrimenti. E impiegare tutto il tempo del volo, tra barzellette e assurdità, a capire che in fin dei conti ha ragione lei. Perché è necessario innalzarsi per poter precipitare.
Ma poi infine, perché darsi tanta pena? Lei vuole dimagrire, lui voleva ingrassare e alla fine che cosa sarebbe cambiato? Quando non c'è leggerezza, andare e venire, sentire e parlare ha senso solo in rapporto alle situazioni di raffronto. Se ci sono, dopotutto. Altrimenti è solo come cercare di trattenere il vento in una mano, come cercare di capire chi fosse l'uomo che veniva da Taured e soprattutto dove fosse situata, o evocare il grande mistero senza accettare che il motivo della vita è vivere e che sia davvero da considerare quella che è la nostra semenza, poiché non fummo fatti per viver come bruti ma per inseguire virtù e conoscenza. E come coriandoli sospesi sopra al mondo, aquiloni pieni di cielo, sollevati dal fiato umido della terra. Continui a precipitare e risollevarti, nel dubbio e nella certezza: oggi sono qui, domani non sarò più. E ci crediamo, in ogni istante, cercando e cercando, mostrando e mostrando; per far credere di essere migliori, per convincerci di esserlo davvero. Ma siamo solo come fette di torta in un piatto, così da poterci guardare l'un l'altro per giudicarci più o meno grosse e godere in silenzio delle disgrazie altrui, nel pentimento eterno del momento di consapevolezza dell'euforia del vivere, dello scampare per un pelo al disastro. Perché tutto è sfida, anche quando non c'è. Vanità di vanità è anche e soprattutto non riconoscerla. Perché sospesi come pendoli oscilliamo, avanti e indietro, ingigantendo il nostro dolore e le nostre ferite e sminuendo quelle altrui, perché è il solo modo che noi abbiamo per sopravvivere, per non vivere la vita degli altri, per migliorare e curarci della nostra.
Avanti e indietro. Su e giù. Da ogni posto e ogni luogo. La sospensione è come un oceano ghiacciato, troppo spesso da perforare, troppo sottile da attraversare; spazzato dal vento, conturbato dalle nuvole nella logica copernicana che impone l'impossibilità di avere un punto fisso se non in relazione ad una staticità apparente. Ma se io lo so, e tu lo sai, e vorremmo dirlo al mondo, urlarlo, suppurarlo, capire dove si situa la crepa da cui ci piove in testa e mangiare funghi, coltivare incubi per poterli estirpare prima che diventino troppo grandi, ma conoscendoli a menadito comunque, allora è davvero volo libero.
Mai più indietro, solo avanti. E anche se voglio guardarmi alle spalle, devo voltarmi come se volessi pisciare mentre cammino, così da non smettere di andare avanti, sempre avanti. E chi se ne importa delle mete. Avere una meta è la cosa più banale, antiquata e sopravvalutata del mondo. Se guardo avanti mi perdo la vista delle stelle, se guardo indietro cado in dirupo, allora lascio cadere i perché e volo e basta; c'è così tanto bagaglio dopotutto. Così tanto che perde senso nel momento stesso in cui mi azzardo anche solo a pensarci, ed è inutile che mi dico che intendo davvero dire ciò che dico perché mi è bastato rileggere due righe di un vecchio autore per indurmi a ricordare che la follia è il punto di vista del giudizio di chi non capisce e preferirebbe che le cose non mutassero mai o ci dessero il tempo per accettarle o ci consentissero di non doverle guardare.
E poi perché avere paura? Nel senso tutti sappiamo come andranno le cose. E se oggi volo, domani atterrerò e poi potrò spiccare il volo di nuovo, in cicli e cicli di sonno e veglia. Ma quando focalizzi, e il cielo è terso, privo di ogni dubbio e la mente è aperta, consapevole e vedi tutto come se fosse alla piena luce del sole e non sotto un lampione dondolante di una via buia, allora sai che hai paura di dire qualcosa ma hai paura di non dirla. Perché se non la dici ti pentirai di non aver colto l'occasione ma se la dici hai paura che come sempre la parole immiseriscano tutto ciò che, quando era nella tua mente, ti appariva così sconfinato, e tutti quei discorsi che riprovavi davanti allo specchio, o quando eri immerso nel traffico, fingendo di avere un auricolare con chi al semaforo ti prendeva per bipolare, perdono un'enorme fetta di significato e ti ritrovi come Fabio Volo all'aeroporto a dire: "Il crampetto..." e la gente ti guarda strano, come se non fossi in te, come se fossi qualcuno da compatire, da lasciare indietro; magari da evitare. Eppure tutti a volte ridiamo da soli, quando ricordiamo qualcosa di divertente, quando vediamo qualche immagine sui social o nel mio caso su whatsapp (che riceverei con un ritardo colossale se non fosse per mia moglie che si premura di girarmele).
Ricordo della leggerezza con cui prendevo alcune vicende della vita una volta. Lasciavo che a preoccuparsi fossero altri. Ma alla fine dei binari paralleli c'era sempre una stazione ad attendermi e io ho sempre detestato le stazioni. Soprattutto l'odore. Non l'ho mai tollerato. Mi si attaccava addosso, sui vestiti e me lo portavo via quando uscivo. Poi ho capito che era la preoccupazione che non reggevo. Ero come una formica che cercava di insegnare alla cicala come suonare e gozzovigliare. Provarla mi faceva sentire come se avessi i tendini scoperti e stesi al sole: secchi e fragili come steli di fieno. Non era solo fiato: era spazio per poter respirare profondamente e libertà di smettere di aver paura di non saper più smettere di piangere o ridere o entrambe le cose assieme; paura costipata dal non riuscire a ricordare che il pianto sono lacrime tanto quanto Wikipedia è conoscenza.
Ma ho visto quell'alba che sorgeva nei suoi occhi, quando mi guardava con quel misto di adorazione e bisogno. Non so se tornerà mai, o se inseguirò quei giorni infiniti spesi correndo, amando e coltivando per tutte le ore e gli anni che mi attendono innanzi, cercando la conferma e la bellezza di quel baluginio sorridente. Forse no, forse vivrò in modo diverso, con quella punta di malinconia, come il sale sull'incavo della mano per bere la tequila. Perché non possiamo inseguire il volo, dopotutto. È un eterno sfuggire, scivolare. È nella sua natura e non possiamo che accettarlo. E non getto via mai un saluto, anche se dico "Ciao" alla donna che amo anche venti o trenta volte al giorno, come intercalare quando guido, quando siamo a casa, quando cerco un abbraccio, quando sento il bisogno di sapere che mi risponderà con un sorriso. Sono passi di una danza che uno perfeziona con il tempo. E io ne conosco il significato, dentro, in profondità. Non ne capisco abbastanza l'importanza, anche se posso intuirla. Questo no. Ma è così che funziona con molte cose, no? Mangi, bevi, evaqui e poi ricominci da capo. Non ti preoccupi sempre di cosa assimili; non prima di preoccuparti di seguire quel ciclo. E a volte non lo fai per nulla. E questo perché sei dentro ad un ciclo e non ne esci e non vuoi perdere tempo a capirlo. O se ci provi tendi a perdere il senso del gusto in ciò che fai. Ti senti così calcato sulla testa un cilindro storto, dentro cui si annida una lepre travestita da colomba, ma se infilassi al suo interno una mano guantata questa ti azzannerebbe le dita strappandoti a morsi le falangi e lasciandoti solo moncherini sanguinanti e frastagliati. Per quanto si possa pensare, in realtà non è così terribilmente scomodo vivere così, purché non si vada a caccia di prospettive gaussiane. Ecco perché non capivo il volo libero che Joy mi descriveva con una tale semplicità: pretendevo di affacciarmi ad uno stagno azzurro cielo e non specchiarmici perché non volevo perdere la mia ombra e il mio riflesso: rubati dalle ondine, come l'anima del pescatore nella storia di Wilde. Se non che lui se ne privò di sua spontanea volontà, concedendole di andarsene in giro per il mondo, ma rifiutandola per amore. Io invece avrei voluto lasciarla libera, ma per poterla accompagnare, per provare così l'ebbrezza atipica del coraggio di vedere per guardare, colmarmi gli occhi e dire soltanto: io l'ho visto. E tutto, questo, per amore.