The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Lughnasadh 2012

Lammas 2012

Non ci vuole un cazzo a creare un dogma. Nel mio caso spesso parte da un rituale che si ripete nei minimi dettagli. Il mondo ne ha bisogno. Il mondo attende, sempre, qualcuno che istituisca questi rituali. E a volte le persone muoiono attendendo il completarsi di questi rituali. A volte le persone muoiono nell'attesa. Come diceva quella canzone di Vasco: "Passarono gli anni e la gente era ancora lì come ferma nel tempo ad aspettarne il ritorno. Mai nessun altro, mai nessun altro lo vide più". E attesa di che cosa? A volte, come si diceva proprio in questi giorni, l'attesa dell'uomo del destino. Quel qualcuno che possa fare ciò che noi vorremmo tanto che sia fatto ma che per un motivo che nessuno riesce a comprendere e accettare nessuno fa.
Per dire una stronzata, il pranzo qui dove lavoro è un rituale, come anche il caffé dove ognuno fa finta di voler pagare per tutti e alla fine immancabilmente ognuno paga per sé. Il giorno in cui una persona che fa il brillante si ritroverà con tutti che gli danno una pacca sulla spalla e gli dicono: "grazie per il caffé", sarà il momento catartico in cui si smette di portare avanti un rituale e si spezza il dogma.
Io, involontariamente ho creato un mostro. Presente quella scena della sigla di quel telefilm anni 80: "Automan", l'uomo luminoso? Questo usciva dal computer, bellissimo, attraente, ma soprattutto invincibile. Era stato inventato da un genio del computer grazio all'ausilio di un semplice calcolatore IBM, qualcosa che a livello tecnologico farebbe in dieci o quindici minuti quello che il più stupido dei telefoni che uno qualsiasi di noi ha farebbe in un millesimo di secondo. Lo scopo? Nessuno, se non dare un motivo all'esistenza del telefilm e saper fare tutto ciò che fa qualsiasi uomo ma farlo meglio. Dopotutto è un computer, mica pizza e fichi. Ogni volta, quindi, che vado a pranzo al lavoro, tornando indietro mi faccio un giro al libraccio che c'è qui in bovisa. Pensate ho letto che il nome di questo quartiere deriva da "bovi", ossia allevamenti. E l'altro giorno passando da Bovisio Masciago mi sono detto: ma allora cazzo anche quel paese era zona di pascoli! Semplice, no? Alzi la mano chi non ci aveva mai pensato. Ora, per chi non c'è mai stato, questa zona di Milano sembra un luogo che porta le cicatrici che possono notarsi dopo una guerra: palazzi abbandonati, scheletrici, arrugginiti. Addirittura un cancello di una vecchia fabbrica dove, chi l'aveva occupata per farne un centro sociale, magari professando il Rastafarianesimo, vi aveva dipinto sopra un teschio con due scimitarre incrociate. Molto kitch. Nonostante appaia come il bronx, questo posto non è poi così male. E ok la presenza dell'università è come un prato fiorito in una discarica e quando chiude, come in questo periodo, sembra di stare in un film di Sergio Leone. Per non parlare di quel passaggio pedonale davanti alla stazione dove la granitica fiumana di universitari, forse legati all'etimologia del quartiere dove studiano, si cimentano nell'attraversamento come una massa inerme e priva di coscienza della sua stessa natura, impedendo a qualsiasi mezzo (anche le biciclette) di interrompere il loro interminabile corso, ignorando forse che il traffico talvolta deve scorrere e che anche altre persone devono andare al lavoro, vivere la loro vita, passare di lì.
Ma dicevo, la tappa al libraccio che c'è in zona è un must, è un obbligo. Qualcosa che non è capitato. Qualcosa che è stato costruito con un preciso rituale. La ragazza che sta alla cassa è molto attraente, ha dei bellissimi occhi chiari e un'espressione molto sveglia e poi, diciamocelo, lavora in una libreria e per uno come me questo renderebbe attraente una qualsiasi donna. Non che io vada lì per lei, ci mancherebbe. Non abbiamo mai parlato. Nei periodi di estremo caldo come questo vado là anche per cercare un po' di refrigerio. Di base non è che io possa comprare un libro ogni volta che entro, e non solo per la questione economica che di suo ha un certo peso, ma proprio perché non sempre trovo qualcosa che mi interessi. Ma il guardare è obbligo. È qualcosa cui non si può rinunciare. In genere la cosa funziona così: Fase 1: apertura della porta, sospiro di sollievo per il fresco, sorriso alla ragazza dietro al banco, tappa all'angolo dei fantasy, sbirciatina tra i libri di Forgotten Realms, occhiatina a quelli di Narnia, sospensione su quello di Ed Greenwood che parla della figlia di Elminster. Fase 2: giro nella solita eso-zona, come la chiamo io. In quella singola colonna ci saranno ad essere generosi dieci titoli interessanti nel mezzo delle solite cagate di Giacobbo che si chiede che succederà entro cinque mesi ad oggi, il seguito di quel libro dove un sorridente Giacobbo a mani conserte si chiede che succederà entro sei mesi ad oggi, qualche stronzata sugli angeli e sulla storia della magia e quelle chicche di Gurdjeff, quel paio di Prop e qualcosina sparsa sull'alchimia. Fase 3: dopo il giro alla eso-zona, prima di aprire la porta e saltare nel vuoto del bollore, si va sul gran finale degli autori greci e latini a ripassare tra le Vite Parallele di Plutarco, le tragedie di Seneca ed Euripide, le immancabili opere di Platone e i Satyricon di Petronio, e proprio in quelle opere così frammentarie mi ritrovo un po' Encolpio e un po' Agamennone quando discutono della decadenza dell'eloquenza. Se non che, sarà il freddo... ma beh, ogni volta che vado là dopo dieci minuti mi scappa la pipì. È terribile. Non so cosa mi causi un effetto diuretico di quel tipo ma ormai è standard; entro e già la mia mente pensa alla pipì e automaticamente mi scappa, come se fosse lì, proprio lì ad aspettare. Questo limita sempre il tempo che posso passare a non comprare un cazzo sui libri, ma ogni volta che mi capita di cadere su quell'edizione giallastra di Petronio ripenso sempre a quel dialogo tra il retore e il protagonista. Qualcosa che fa riflettere sul valore stesso dello studio. Dopotutto io lavoro vicino ad un'università e proprio oggi, durante il pranzo, insieme con un amico abbiamo osservato come sia assurdo che un laureato in ingegneria indossi una corona di alloro che in teoria dovrebbe indossare un letterato. Encolpio sosteneva nella discussione: "sia per l'enfasi degli argomenti, sia per lo sproloquio del tutto inutile delle tesi sostenute, esse sono utili soltanto a questo, che, quando sono giunti nel foro, pensano di essere come sbarcati in un altro mondo. E per questo io credo che i giovinetti si rimbecilliscano nelle scuole, perché non ascoltano o vedono nulla che assomigli alla vita reale, ma solo pirati che tendono agguati sulla spiaggia con tanto di catene, tiranni che scrivono editti con i quali impongono ai figli di tagliar le teste dei propri padri, responsi di oracoli, dati per placare la pestilenza, in cui si impone di immolare tre o più vergini (...). Con vostra buona pace, mi sia lecito dire che voi (retori) per primi fra tutti avete rovinato l'eloquenza". E Agamennone, il retore, rispondeva: "Degni di bastonate sono i genitori, che non vogliono che i loro figli facciano progressi con una seria applicazione. (...) E se consentissero che la fatica dello studio fosse graduale in modo da modellare gli animi ai precetti della filosofia (...) allora sì che quella grande oratoria riacquisterebbe il peso della sua nobiltà. Oggi i ragazzi nelle scuole si trastullano, nel foro i giovani vengono derisi (...)".
Non è il vertice del paradosso?, mi chiedo talvolta scivolando tra i libri del libraccio. Il dogma è che lo studio sia utile e fondamentale. E io per primo sono uno che ci perde gli occhi sui libri. E infatti ho creato un dogma andando tutti i giorni al libraccio. Ho creato un rituale che preservo con una costanza che avrebbe dell'incredibile se non fosse dettata principalmente dalla ricerca del non trovato. In fondo lo so benissimo che cosa mi manca. Oltre ai soldi per comprare ciò che vorrei, nella mia lista dei desideri su Amazon ci sono 39 libri. Solo 39. Un numero assolutamente esiguo se non considerassi che non c'è nemmeno un romanzo in quella lista. Quell'elenco segna la fine del mio periodo di vita dedicata alla passione per la lettura e l'inizio di quella dedicata alla passione per lo studio. E c'è una netta differenza tra le due cose. La differenza è un cazzo di baratro, però. Peccato solo che la passione per lo studio abbia perso il treno (mi piacerebbe pensare per via di uno sciopero dei ferrotramvieri) e sia arrivata con un certo ritardo, di tipo... vent'anni. Per la serie: "Hey, scusate il ritardo... mi sono persa qualcosa?".
"No, niente di che, solo un titolo di studio decente e una ragionevole possibilità di pianificare un futuro più roseo. Ci facciamo una birra?"
Dopo il rituale del libraccio c'è il rituale del caffé shakerato al bar tipico. Il ragazzo è un nerd di quelli fatti e finiti, ma dopotutto il suo locale è anche un negozio di giochi da tavolo, fumetti e articoli da RPG e alla fine gli si racconta sempre il procedere delle avventure che affrontiamo a Faerun con il nostro gruppo di D&D. E poi dopotutto, come dico sempre, ci vuole un nerd per riconoscere un altro nerd. Volete una prova? Ok. Quanti di voi sanno che significa D20 o quanti risponderebbero a questa domanda: "quante facce ha un dado?" con un'altra domanda? Solo un nerd sa queste cose. E una volta essere nerd era una cosa che si doveva nascondere o di cui vergognarsi. Ci facevano dei film a riguardo negli anni '80 per cercare di far rivalutare il lato umano di questa categoria di persone. Chi se lo ricorda "La Rivincita dei Nerd"? Adesso essere nerd è qualcosa di cui andar fieri. Come cambiano i tempi. Lunga vita e prosperità (e alza la mano destra creando uno spazio a V tra anulare e medio).
Il mio rituale, vedete, non è che sia tanto male. Alla fine la mia vita ne è piena. Il problema è quando un rituale diventa un dogma, come dicevo. E il problema è che la mia vita è piena anche di quelli. Per dirne una le mie librerie sono organizzate in modo maniacale. E io sono un cazzo di anarchico. La contraddizione per eccellenza. Il mio passato nella biblioteca si fa sentire e la catalogazione Dewey quando hai centinaia di libri non è un punto di vista, è un dato di fatto se vuoi sperare di trovare ciò che cerchi in tempo utile. Ma nel mio caso sforo il limite. Se volete seriamente rompermi i coglioni, andate a casa mia e spostatemi i libri. Ho uccido per molto meno. Io credo di poter affermare con una certa sicurezza che anche se se dovessi essere preda di violenti spasmi intestinali uniti ad una colica renale e (per non farmi mancare niente) anche lo stomaco a pezzi come quando nei Griffin Peter, Stewie, Chris e Brian in soggiorno fanno la gara a chi si aggiudica la torta che proviene dalla vendita per beneficenza di Lois bevendo sciroppo di ipecac e vedendo chi vomiterà per ultimo, ma passando davanti alla mia libreria nella corsa al cesso notassi qualcosa di fuori posto io mi fermerei per metterlo in ordine. Dovessero volerci venti minuti. Non riuscirei a dormire al pensiero. Mi rigirerei nel sonno, sudato e tormentato dall'immagine del libro fuori posto. Lo sentirei deridermi svolazzando come in Poltergeist. È come quando cambio portafoglio e poi non trovo più un cazzo.
Se il rituale diventa dogma si incontrano i primi problemi.
Io, vedete, credo nel fatto che ognuno di noi crea, dentro se stesso, tutte le possibilità e si predispone per le circostanze che ci consentono di evolverci e progredire. Non c'è nulla nella mia vita come pagano che io faccia solo per me stesso e nulla che io non faccia per me stesso. Questo forse è l'unico dogma, l'unico assioma reale che non spezzerò mai, credo, in un milione di vite. Io lo so che un giorno smetterò di andare al libraccio, smetterò di andare a bere il caffé shakerato con Calhua e Bailey's (che chiamiamo "il solito") dal ragazzo nerd e per quanto io possa insistere sul fatto che ci siano cose che ritengo essere le ultime che farò nella mia vita, come votare Berlusconi, mangiare degli scarafaggi, iscrivermi a FB, io lo so che l'ultima cosa che farò in questa mia vita sarà chiudere gli occhi e smettere di respirare. Tutto il resto è rituale, è passaggio e tutto il resto è possibile che avvenga. In tutto questo però se so di poter amare allora amo, se so di non sapere e di poter imparare allora conosco nei tempi e nei modi a me concessi. Lo studio in quanto tale è sia forma di amore che forma di conoscenza se portato alla ricerca.
La ricerca, già. Che cos'è quindi la ricerca? Me lo chiedo spesso. Un tempo credevo che fosse il bisogno di trovare una risposta. Ora penso che non sia così. Magari cambierò idea ancora fra poco. Ora io credo che rispecchi invece il bisogno di uscire o trovare le radici di una risposta per metterla in dubbio. Almeno, questo per quanto riguarda me. E questa è una conclusione cui sono giunto rendendomi conto che spesso e volentieri il dogma, nella mia vita, fa una sorta di sgambetto alla conoscenza: limita il mio punto di vista mettendomi in chiaro che alcune cose seguono uno schema prefissato senza in realtà spiegare quale strada è stata seguita per giungere alle conclusioni che mi sono state insegnate con lo studio. Perché questo? Forse perché c'è una certa paura che qualcuno possa ripercorrere la stessa strada ma giungere, in questo modo, a conclusioni differenti?
Quando mi capita di parlare con delle persone che basano tutto sulla scienza li trovi fissi sui loro perni, impossibili da smuovere. Quando capita loro di trovarsi di fronte a qualcosa che la scienza non spiega si chiudono in un religioso mutismo o ripetono le stesse cose senza più ascoltare o ti buttano fuori domande che non hanno attinenza. Non che qui si prenda in considerazione l'idea di convertire alla teologia ogni scienziato, perché alla fine una persona in primis deve stare bene con se stesso, ma se si sta discutendo di qualcosa per scambio, per beneficio stesso di discussione, per moltissime cose noto che danno per scontato ciò che hanno imparato solo perché gli è stato insegnato. Nessuno di loro mette in dubbio che, essendo stati esseri umani (e quindi per loro natura fallibili) a fare le osservazioni che, messe per iscritto, sono poi state studiate ed elaborate da altri che le hanno passate a loro, potrebbero essere sbagliate. E non mettono in dubbio che il modo in cui tu guardi una cosa, spesso, determina esattamente ciò che tu vedrai. Se il dilemma dello scienziato è chiedersi perché, il dilemma del filosofo è smettere di chiederselo. Il problema non è parlare con un biochimico con un lavoro legato alla fisica delle particelle (come il mio batterista) di quale cavolo sia il Bosone X o del perché la forza di gravità è accettata, spiegata ma non dimostrata a livello molecolare. In quei casi ascolti affascinato; almeno nel mio caso. Il problema è parlare con queste persone dell'amore, della spiritualità. Il mio batterista, come dicevo, è uno scienziato. Prende anche un bel po' di soldi, anche se non lavora al Cern. Il che mi fa pensare che forse ho sbagliato qualcosa io. La sua ragazza, a dir assolutamente suo, ha spessissimo sogni premonitori di una vividezza incredibile. Pensate che mi ha raccontato il suo più grande dilemma: la sua fidanzata per due settimane gli ha descritto nei minimi particolari un incidente terribile in cui sognava di incappare prima che si verificasse negli esatti termini in cui lei glieli aveva descritti, colore e marche delle macchine coinvolte comprese. Di fronte all'ineluttabilità di un fenomeno che lui non riusciva a spiegare l'ho visto finire in crisi e riconoscerlo con una sincerità strabiliante e affermare, davanti ad una birra mezza consumata, queste esatte parole: "La mia mente scientifica mi impone di non accettare una spiegazione come questa perché sfocia in quello che mi è stato inculcato essere assurdità e non posso averne una prova valida, ma non posso negare l'esperienza che ho avuto e questa cosa mi spaventa in modo terribile. Per questo preferisco non parlarne".
Per noi che viviamo in un mondo identico seppur diverso, perché guardato da un punto di vista più ampio, un sogno premonitore non è niente di così terribile o eccezionale. Per lui invece, che ha strutturato il suo punto di vista come una combinazione perfetta di cassetti dove tutto è assolutamente certo, significava lo spezzare di un dogma che non era in grado di affrontare e questa cosa lo spaventava da impazzire. Il suo studio lo aveva reso schiavo, come del resto la mia libreria ha schiavizzato me, dopotutto. Ma proprio leggendo un bellissimo libro, ultimamente, ho deciso che inciderò sulla mia libreria la seguente frase, citandola: "Non c'è niente di sbagliato nell'imparare dai libri finché capisci le regole base. Una è che ciò che dicono non è sempre corretto. Un'altra è che non puoi imparare tutto da un libro".
I libri, lo studio, non sono tutto. C'è il pensiero. Questa bellissima cosa di cui gli dei ci hanno fatto dono. Questa cosa che dentro di noi si è sviluppata e ci ha spinto a chiederci il "perché" di ciò che capitava. Come se lo è chiesto chi ha scritto i libri, chiediamocelo anche noi.
Vi racconto questo semplice aneddoto. Qualche tempo fa, su internet, una studentessa che doveva fare un compito per l'ora, credo, di filosofia a scuola mi ha posto una domanda. La questione era legata al vaso di Pandora e la professoressa chiedeva esplicitamente agli alunni di esprimere un parere sui mali del mondo contenuti nel vaso, che, come ci racconta Esiodo nelle Opere e i Giorni ricordiamo bene essere circa malattia, pazzia, vecchiaia, vizio, passione, sospetto, fame ecc.. e infine, quell'ultimo dono rinchiuso dentro per non lasciarlo scappare, che era la speranza. Chiedeva inoltre di spiegare se ne avrebbero aggiunti altri. Solitamente io non aiuto i ragazzi che devono fare i compiti, perché finisci per farli per loro e quindi non aiutarli, ma quella volta la cosa mi incuriosì e io risposi in questo modo: "Scrivi esattamente questo: Il bene e il male non esistono. Sono solo vie diverse di giudizio della moralità umana. Per cui Pandora è una parafrasi anche un po' hollywoodiana del fatto che le donne non obbediscono; una visione nazista con cui non mi trovo d'accordo essendo io stessa una donna. Se lei sapesse già la risposta e questa fosse assolutamente dogmatica non avrebbe senso che ci avesse chiesto di rispondere ad una domanda con risvolti così personali e morali (la scuola è o dovrebbe essere, per sua natura, multietnicità e per parità un buddhista ha una moralità diversa da un cattolico), ragion per cui, se a questa mia risposta dovesse dare un voto negativo, non farebbe altro che darmi ragione: in tal modo sta infatti solamente privando il mondo di un'opinione sul bene e sul male: in questo caso la mia. E questa è una risposta che vale tanto quanto la sua, se non di più a volerla dire tutta... dal momento che fino a prova contraria lei fa la professoressa di filosofia, mentre io da grande potrei diventare Premio Nobel per la pace." Non ho mai saputo poi come si andato il compito. Questa esperienza per me fu come uno di quei pesci che peschi e che poi ributti nel mare perché ti dispiace. Non ti chiedi se sopravvivono, se si accoppiano, se metteranno al mondo degli avannotti o se andranno a finire nella bocca di qualche predatore proprio appena tornati liberi. Il destino è il loro e ne sono padroni. Ma c'è un nesso in questo evento che mi fa sempre riflettere: i pensatori, in genere, anche quando studiano, dovrebbero in linea di massima non smettere di pensare ed interrogarsi sulle cose. Nel mondo di oggi non vedo più questa cosa. O quanto meno trovo che sia rara. E la colpa non credo che sia di chi studia, bensì di chi insegna. Quindi sia Encolpio che Agamennone, nel dibattito sulla loquacità di Petronio avevano ragione. Quando le persone studiano, qualsiasi sia l'arte che decidono di apprendere sui libri, spesso e volentieri smettono di farsi domande e accettano le risposte che gli vengono date per partito preso, senza in realtà porre nessun quesito ed eliminando così la curiosità stessa che dovrebbe essere alla base dello stimolo all'apprendimento. E spesso anche le materie che una persona è portato ad amare diventano semplicemente qualcosa che si assimila fino ad una certa percentuale di saturazione e poi via, divengono come inchiostro gettato in un fiume. E insieme con esso anche quella stessa curiosità che Ermes infuse assieme con l'astuzia nell'archetipo femminile di Pandora, la moglie di Epimeteo. Senza quella curiosità, secondo il mito, l'uomo attualmente non dovrebbe affrontare la morte, la malattia, la guerra, la pestilenza, la carestia... ossia tutto ciò che ha inquinato lo splendido periodo dell'età dell'oro. Ma mi chiedo, è davvero così? O senza quella curiosità l'uomo non si sarebbe preoccupato che di rimanere seduto a non dover fare null'altro che vivere e quindi avrebbe perduto uno degli scopi reali di crescita attraverso le difficoltà che la vita gli mette di fronte ogni giorno?
Ammettiamo per un momento che la parafrasi del mito sia reale. L'uomo vivrebbe ora senza malattia, morte, guerra, pestilenza, carestia, gelosia. Togliamo all'uomo la pestilenza, la malattia e la morte. Cosa significa? Significa niente medicina, quindi niente guarigione e quindi stare senza uno dei più grandi pilastri di quell'arte che, in qualche modo, ha migliorato il nostro stile di vita, nonostante nel tempo sia diventata la schiava di se stessa. Togliamo all'uomo la guerra. Significa nessun modo per sfogare la bellicosità innata dell'uomo stesso. La guerra è una conseguenza di questa stessa bellicosità, non solo la sua manifestazione primaria. L'uomo uccide e scatena la guerra, non è la guerra che scoppia senza che qualcuno l'abbia voluta o che vada a combatterla. E l'immortalità causata dall'assenza di morte non limiterebbe comunque la guerra. Gli dei sono sempre stati in lotta uno contro l'altro anche se non potevano morire. Si sono smembrati, maledetti, trasformati, esiliati, ma hanno sempre incarnato tutti gli aspetti umani. Se l'uomo non sfoga la sua rabbia per ciò che ritiene ingiusto contro un altro uomo che magari gli si mette dinanzi a difendere la medesima, ma opposta visione, verso chi credete che la sfogherà? Lo farà su se stesso. Togliamo allora all'uomo la carestia, quindi l'assenza di cibo. L'uomo smetterebbe di preoccuparsi e di lavorare, smettendo di dar valore alla vita, in conseguenza anche al fatto che non può morire. Senza la carestia l'uomo non avrebbe più bisogno di osservare un ciclo. L'abbondanza di cibo non significa che un giorno non finirà, per non ammettere la carestia si deve pensare ad una riserva infinita di questo cibo. Se non si ha il bisogno di preservarlo perché non finirà, si perde il senso di rispettarlo come anche il senso di spreco. Togliamo all'uomo la pazzia. In questo modo toglieremo all'uomo la possibilità del discernimento e della comprensione. Non distingueremo più cosa è per noi il sacro e il profano. Non avremmo più un'etica valida per capire la differenza che ci serve per istituire le regole di una società. Si perderebbe il significato stesso di società umana, giusta o sbagliata che sia, ma parte integrante del nostro vivere. L'uomo è un animale sociale. Togliamo all'uomo la vecchiaia. In questo caso si perderebbe l'esperienza e la saggezza. Non temere di morire ci toglie la scaltrezza di evitare i pericoli e di aver paura, quindi di saperci preservare; ci rende dei bambini: privi quindi della saggezza e della comprensione che è portata solo dalla ferita. Togliamo infine all'uomo la passione e il vizio. Un cosa parimenti incomprensibile. Riuscite voi a concepire una vita senza passione? La passione è ciò che determina il desiderio. Ma come esseri mortali sappiamo che possiamo vivere sul vivere, ossia che il nostro scopo fisico è riprodurci e sopravvivere. Credete che lo faremmo se non ci desse piacere? Togliamo all'uomo la passione e non avremmo niente che ci migliorerebbe la vita o che ci infiammi dentro. Niente passione e niente vizio, significa niente imperfezioni e quindi niente arte. Significa niente su cui basare la propria poesia, niente da decantare e dato che tutti sono perfetti significa nessuno scopo da raggiungere per migliorare noi stessi. Sia nella nostra stessa vita che nella concezione mentale. Cosa ci porta tutto questo? Il fatto che è solo sprofondando nei più tetri e profondi abissi che possiamo riconoscere la luce. È solo nascendo da quel brodo primordiale, come pezzi di carne suppurata che strisciano fuori dagli oceani che possiamo evolverci ed uscire allo scoperto. Non viviamo per occupare il tempo perché non abbiamo altro da fare. Quanto meno secondo il mio punto di vista. Noi viviamo con delle opportunità; e questo grazie a Pandora, grazie alla sua curiosità che la spinse ad aprire quel vaso. L'apertura del vaso di Pandora ha migliorato l'umanità dandogli un motivo per combattere e per sopravvivere. Ci ha concesso di diventare più forti e di acculturarci, di fare lo sforzo di essere indipendenti, di trovare un significato evolutivo nella sofferenza dell'anima e del corpo. Trovo anzi assurda la facilità con la quale ci si trova a pensare alle difficoltà naturali che l'essere umano deve affrontare come fossero i "mali del mondo". E proprio qui è il significato: nel fondo dello scrigno Pandora trovò anche "la speranza". Dal momento che era terrorizzata, rendendosi conto delle conseguenze di ciò che aveva fatto, la donna chiuse di scolpo lo scrigno, impedendole di uscire. Ma in seguito Pandora lo riaprì, forse dominata ancora dalla stessa curiosità che la spinse ad aprirlo la prima volta, o forse comprendendo che ciò che ci arriva, dannandoci in qualche modo, può portare con sé anche un aspetto positivo. Se Zeus avesse voluto davvero distruggere l'umanità con quella scatola e con ciò che essa conteneva, perché insieme alle altre cose avrebbe messo dentro anche la speranza? Secondo alcuni, forse quelli che vedono un puro sadismo nella divinità, lo fece per illudere l'uomo di potersi destreggiare tra le difficoltà. Secondo altri, lo fece invece per dare all'uomo una possibilità di combattere quelle stesse difficoltà. La verità forse non la sapremo mai. Possiamo solo immaginare o filosofeggiare.
La cultura quindi non dovrebbe essere dogma, perché il dogma è la morte della cultura e della ricerca, in quanto se accetti qualcosa per dato di fatto senza metterlo in dubbio o senza ricercare una risposta differente, rischi di limitare la tua curiosità e lo stimolo stesso della tua crescita. Il mondo ha già così tanti dogmi infrangibili costituiti solo dal fatto che si studia sullo studiato e non si percorrono strade nuove che averne su delle basi spirituali trovo che sia contrario alla crescita. In più, a dirla tutta, accettare un dogma come precostituito è da teologi cristiani, non da ricercatori pagani. Ma questo rimane un mio punto di vista, come tutti gli altri, del resto.
Alzo quindi il calice alle discussioni animate, intorno ad un tavolo, dal quale ci si alza, magari, con le stesse identiche idee di quando ci si era seduti, ma con la consapevolezza che il mondo del visibile e dell'invisibile, quello stesso mondo che esorcizziamo, rimane legato all'esperienza che si fa di esso, come del resto della vita. E le esperienze hanno senso solo se vissute in prima persona.