The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Lughnasadh 2014

Lughnasadh 2014

Vento leggero, vento del mattino. Vento che soffia sulla cima del pino. Vento che canta, vento che danza, vento, vento, vento leggero.

Un tempo non conoscevo il potere del fuoco. Lo temevo. Forse, credo si trattasse prettamente di invidia, percezione della grandezza e dell'irraggiungibilità. Forse ritenevo che, dato che in qualche modo era considerabile come qualcosa da evitare, genealogicamente e culturalmente ho imparato a starne alla larga, a trattarlo con una riverenza e un rispetto che non avrebbe altra visione culturale che non sia da attribure ad altro che all'esperienza umana radicata nel concetto comune.
Ma il fuoco è detentore di segreti. Segreti che io ho gettato tra le sue fauci allo scopo di nutrirlo. Un tempo, in una canzone che scrissi per una mia vecchia band, intitolata Dance in the Flame recitavo che nella vita e nella morte noi nutriamo la fiamma e che usiamo ricordi di benzina per alimentarla e mi chiedevo se ci saremmo sentiti più a nostro agio con un combustibile che non si agita. Ma ogni cosa è una citazione, dopotutto. La vita è una citazione. La morte è una citazione. Ti amo è una citazione. E ripeterselo ogni volta non lo rende meno speciale. Cosa che non capita, in fondo, con proprio tutte le citazioni.
Nella mia esperienza quando decidi che è tempo di donare al fuoco qualcosa, implica il fatto che devi essere pronto ad averla indietro, in modo diverso, trasformata, nel tempo. Non è mica da tutti saperlo, però. Capirlo e accettarlo ancora meno. A volte approcciamo alle cose senza sapere cosa sono, intuendole solo per il fatto che ne abbiamo conosciuta una misera manifestazione su questa terra. La stessa misera manifestazione che ci fa acconsentire di definirlo un elemento, quando si dovrebbe parlare di accettazione, di indivisibile condivisione.
Quando ascolto Battiato mi rendo conto che è riconoscibile in lui, sopra ogni altra cosa, il riuscire a scrivere canzoni d'amore dove il termine e il protagonista stesso del tema non vengono mai menzionati. Un po' come se questa enorme citazione che ci pesasse addosso come piume bagnate, facendoci precipitare violentemente al suolo, raschiando via la nostra pelle con della carta vetra, limandoci i muscoli, affilandoci le ossa e perché no, a volte facendo sì che gli orsacchiotti rischino di perdere la vita.
Questa citazione è come il pugno dell'angelo dai capelli rossi che uccise Harry Houdini. Profetizzato, ma non per questo meno doloroso, meno mortale, meno soffocante, devastante. Come le due poiane che stanno volteggiando su nel cielo, in questo momento, lanciando il loro richiamo come una benedizione, un avvertimento. Un quesito. Già. Un quesito. Come quella piccola voglia che ricordava un punto interrogativo. Qualche dubbio?
Ma le poiane volteggiano come avvoltoi, preannunciando la morte. Attendono sempre, là nel cielo, che il momento giunga.
Nel fuoco, a volte della testa, a volte del cuore, a volte del corpo, getti ciò che senti che deve andare. Ma a volte ciò che senti che deve tornare, in forma diversa, nelle manifestazioni diverse dell'esistenza, ma sempre e costantemente vive, forti, precise. Anche se poi, a volte, reincontrarle è come sentire la mano di Ereshkiegal poggiata direttamente qui sul cuore, che esprime nella sua glaciale incomunicabilità, quella forza tellurica di funerea violenza, come un demone dal ventre gravido che, tenendo tra le dita un pezzo di pane, lo inzuppa nel sangue prima di masticarlo deliziato, con un oscuro sorriso sul volto.
Come aquile i miei sogni. Già. Le ho viste danzare intorno a lei, ognuna morsicando e portandone via un pezzettino, attirandolo nel vortice, risucchiandolo nella voracità della fornace alchemica. Si sono sollevate come piume, come sorrisi, volteggiando frenetici eppur senza fretta, sfruttando le correnti ascensionali verso l'alto, verso un nuovo punto di vista che non fosse bollente, cinereo, cauterizzante.
E nello stomaco, lì in fondo, senti quel bisogno di scagliarti avanti, la mano ad artiglio, pronto a precipitare, ma lanciato nel tentativo di convincerti che la salvezza è necessaria ai fini della crescita. Ma quale salvezza? Ma quale crescita? Ma sopra ogni altra questione: quale tentativo? Quel coltello che ti si pianta nella carne, scavandosi una via retta fino all'incisione della sostanza pura, primigena, come energia di creazione e metamorfosi, fa male quando morsica? La vita è davvero appena cominciata, nel suo senso di rinforzo del comune assenteista perdersi nel significato etimologico della parola amore. Eppure è sempre troppo tardi. Al punto da, in modo boeamicamente rapsodico, temere la morte al punto da desiderare di non essere mai nato.
Ma poi è solo come la vibrazione di un arpeggio lontano, al cui suono ti volti a cercare, come qualcosa che vedi con la coda dell'occhio. E poi, quando ti giri, è già svanita, come i sogni che al mattino si gretolano; per quanto cerchi di tenerli a mente loro lentamente ed inesorabilmente perdono consistenza e poi scompaiono.
Quando ho gettato nel fuoco non credevo che avrebbe fatto male. E in realtà non ha fatto male. Ma il fatto di aspettarselo, anche se solo in profondità e non in superficie, ha permesso che, infine, mi facesse male davvero. Ma come il fuoco, alcune cose sono dentro, in fondo come un oceano di impalpabile cenere, come il rugoso corpo della legna. E nella profondità mettono radici per ancorare il lento e pazzo vento che muove le isole dove il cuore risiede sulla cresta delle onde del mare della vita, in cui sirene cantano e richiamano sedute sugli scogli ad attendere, dove gli spiriti dei morti affogati, imprigionati nei corpi lividi divorati dai granchi, rimangono in agguato appena sotto la superficie, pronti a renderci simili a loro, come accadde al capitano Achab quando rimase legato al corpo di Moby Dick che si inabissò negli oceani e che, nel salire e nel discendere, con il braccio indicava ai marinai rimasti sulla Pequod di raggiungerlo.
La sensazione è di sospensione. Una ciondolante versione tra il tronfio e lo scimmiesco quando cammino, la sensazione quasi fisica di una mano nella mia mano, di una pezza calda poggiata sulla fronte, il sospirante muoversi delle foglie secche spostate dal vento, e il richiamo delle poiane che, una volta ancora, tornano a sorvolare, come segnali divini. Ogni volta che apro e chiudo gli occhi è un'alternanza continua tra il riflettere sul futuro e il non comprendere se è già passato e il non capire dove mi trovi, cosa sto facendo. A fianco a me sento la voce di mia moglie che mi chiama, e sento camminare le persone nelle stanze, con la stessa leggerezza che impiegherei se stessi camminando sulle uova. Ma sono a casa da solo e loro sono solo i fantasmi del vissuto, del percepito, dell'Amato.
Il fumo che esce dal tronco e che si innalza nell'aria con apparente consistenza, ricorda quella dello sperma che galleggia nell'acqua; il suo forte divorare, senza lasciare mai, invece è precipitare con lo sguardo nel volto ghignante di una rana pescatrice che ti adesca con il suo pendente luminoso. Eppure come in un abbraccio, dolcissimo, è poter precipitare senza cadere mai. Sapendo che, come quando Jeshua Hanoz-ri subì la sua tentazione, se anche io avessi deciso di gettarmi in un dirupo sarei stato sostenuto dagli angeli stessi. Ma proprio come credo avrebbe fatto Jeshua (e come Webber ci fa intendere), mi chiederei se questo possa portare solo una profetica sensazione di prostrazione ad un destino che mi vuole morto sotto altri metodi per incarnare altri scopi. Perciò io brucio. E strappo. E infurio. Mondo senza fine.
Il fuoco è per me l'alchimia della deficit deambulatoria. Si nutre di ciò che trasforma, mangia per manifestare se stesso. E come tale è come camminare nell'oscurità più fitta, senza saper distinguere nemmeno la posizione dei tuoi piedi e riuscire soltanto ad immaginare i confini del tuo corpo e comunque correre il rischio di non percepirlo nella sua interezza, nella sua completa essenza, come sopra così sotto, dal verbo alla realizzazione, dal pensiero alla formazione.
La forza stessa che si cela nell'alternanza Melvilliana del tocco e strascico sul ponte, col cigolio delle assi bagnate di acqua salmastra, il rollio della tempesta, è sia l'abbandono all'abisso umano della ricerca senza fine di un significato, sia la distruzione e ricostruzione di un archetipo inconscio di una parte mancante della propria vita spirituale, rappresentata dall'alternanza piede, legno. Nel fuoco alchemico getti ciò che vuoi distrutto, ma nella ricerca di ciò che vuoi ritrovare in modo diverso. Getti ricordi, persone, carte da gioco, tuniche, cordoni; li osservi disciogliersi come una veste da donna che lascia scoperti i seni gonfi, dalle aureole ampie, e che discinta lascia scoprire il ventre latteo, dalla linea alba non solo annunciata, ma visibilissima. E penso a quanto sa essere miserevole la vita quando la immagini priva della consapevolezza del crescere su schemi più ampi di un solo alternarsi di giorno e notte, che ancora mi richiama il dualismo oscuro e luminoso di un efestiano Achab.
Vedo il sangue che cola lento sulle radici, come un sacrificio di me a me stesso, e sento il suono del tamburo che riempie l'aria, mescolandosi alle urla di discesa mentre delle giovani spensierate si ciondolano su quell'amaca che pensavo mi avrebbe accompagnato nei miei ridicoli voli pindarici di pura ascesi, nel rollio gentile delle foglie, nel canto delle sacerdotesse. Da qualche parte un corvo lancia il suo richiamo e ancora una volta io mi volto perché è come se nella sua voce coraxiana stesse chiamando il mio nome, lasciandolo sussurrato tra i tronchi, depositandolo come gocce di sangue e piume per indicarmi la via da seguire.
Quando scende la sera il fuoco non è più una tentazione di amore, è la coesione di rispetto e condivisione. Se io conosco sbaglio. Se io sbaglio cresco. Allora io getto cose vecchie e cose nuove e osservo le fiamme che mi parlano di perle perdute nell'erba alta, di sogni spezzati brutalmente al mattino, di incubi cui vengo sottratto con un urlo che mi muore in gola, di invocazioni fatte a mezza voce, di maledizioni sepolte in profondità nella terra, che riemergono come messaggi orfici di un passato distante, mal seppellito, che riappare sempre come una mano sulla spalla, come quel volto che emerge tra gli altri nelle vecchie fotografie ingiallite e che non riesci mai ad associare ad un nome.
Mi ricordo che c'era il fuoco anche quella sera; alto, immane e le pietre erano incandescenti; avevano una promessa di dolore, di ustione, di marchio. Mi sedetti e la civetta lanciò il suo richiamo, nella notte, per farmi intendere che, tritogenia, lei vede ogni cosa con i suoi occhi infuocati. Avevo il pene eretto e mi sentivo forte, giovane e virile. Ma non provato una vera e propria eccitazione sessuale. Ricordo che danzai intorno al fuoco, lo sfidai, lo invitai a ballare con me. Nudo nella notte saltai sulle linee del wyrd, come Bran. Un ramo nerboruto e nodoso, curvo come un vecchio dal collo torto emergeva bruciante, come un dito accusatore, e mi parlava di sacrificio, di abbandono, di strade oscure e contorte da seguire mentre, come Eracle, altre fiamme mi parlavano di sentieri piani, di dolci pendii, di erba fresca in cui rotolare, di rugiada argentea di cui dissetarmi. E io scelsi come Inanna, e di passo in passo, lentamente sempre di più, abbandonai uno per uno tutti i miei sette Me e venni appeso a ganci arrugginiti anche io, nel freddo e gelido abbraccio della morte. Sangue per gli dei del sangue!
E quando, dopo anni sono entrato nel cerchio di pietre, stando bene attento a rispettare l'ingresso, e poi mi sono steso su quell'erba, nell'odore del timo, nel frinio dei grilli, con la Via Lattea srotolata su nel cielo come un tappeto infinito di stelle, io ho sentito l'oscurità che mi premeva tutto intorno, ma non avevo alcuna paura. Il mostro orrendo e terribile che mi attendeva acquattato dietro gli alberi era bandito, sconfitto, trasformato, ammansito. Così rimasi in piedi, urlante dalla punta dei capelli a quella degli alluci e fui guerriero, stregone, saggio, ricercatore. I volti che si affacciano tra i tronchi sembrano chiamarmi, invitarmi ad unirmi a loro, oltre il velo delle sognanti nebbie, ma io avevo altri lidi che sentivo più miei. Poi ho sentito la tua voce che mi chiamava, ancora e ancora e ancora... e ancora. Ed ero nell'oscurità più buia. Ma avevo con me la sensazione di una promessa. Un giorno forse capirò cosa comporta quella promessa. Adesso però voglio solo pensare alle tue braccia intorno alle mie spalle, al mio capo sul tuo seno, al sorriso che sai donarmi ogni mattino quando mi sveglio e sei con me.