The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Mabon 2010

Mabon 2010

"Il silenzio di una stella cadente illumina un cielo di porpora. Mentre mi chiedo dove tu sia, sono così solo che potrei mettermi a piangere".

A volte è così difficile ricominciare. A volte vorresti evitare del tutto di doverlo fare. Vorresti solo arricciarti al centro della terra, acciambellarti nell'abbraccio gelido e lasciare che il tempo scorra sopra di te. Ma a volte è necessario ricominciare. Anche perché il seme può attendere tempo, ma prima o poi germoglia. Quando capita, però spesso ti siedi e attendi lo stesso. Mi è successo così tante volte... Stai lì seduto, immobile, l'aria intorno a te come congelata e pesante, i minuti che ti piombano addosso come bombe di profondità. Quando il cielo si tinge di stelle, come veri e propri fori d'infinito sul tessuto della notte allora capisci che tutto si muove e che l'eternità semplicemente non ti appartiene. A quel punto credo sia giusto osservare che ognuno di noi necessiti di avere un motivo bello, splendido, meraviglioso per camminare sempre, per non smettere mai di farlo nella vita; una singola lucciola, piccola, un puntino di luce che danza gaio, spensierato e saltellante dinanzi a noi che ci dica che non siamo nel mezzo del nulla, che non stiamo andando a caso. Una luce che ci dica: seguimi, io ti so condurre a casa, ovunque essa sia per te. In fondo il mondo è proprio pazzo. Oh sì che lo è. Ma chi è stato ritenuto pazzo nel tempo, forse era solo qualcuno che aveva capito qualcosa di più: aveva forse solo osato usare una lampada olio invece che seguire quella singola lucciola, ritenendo che la luminosità che emanava fosse troppo debole per guidarlo, lasciando che il timore di perdersi lo conducesse sull'orlo di un dirupo e non capendo invece che l'ignoranza di ciò che vive e respira intorno a te non ti fa cadere carponi e strisciare, ma ti permette solo di non guardare là dove vive ed esiste ciò che non potresti capire.
Alcuni eventi, così strani, assurdi, avvengono così come l'arcobaleno e il lampo e ci spiazzano. Arrivano per metterci alla prova, per permetteci di poterli raccontarem vivere e rivivere poi nel tempo. Ma ogni segno, ogni ferita, ogni cicatrice, sono come tatuaggi che non puoi fare a meno di vedere ogni volta che ti capita l'occasione. E tu puoi chiamarle come vuoi, ma alla fine quello sono: esperienze e segni e ferite. È proprio come con le stelle cadenti. Devi vederne alcune per capire che non sono stelle. Devi crescere, diventare adulto. E sono le ferite che ti rendono adulto, purtroppo. Devi essere là sotto quel cielo d'agosto così immenso, colmo, sotto quella volta inquietante che minaccia di crollarti addosso da immense altezze. In solitudine, sì magari su una spiaggia, con i piedi affondati nella sabbia gelida e umida della notte. Devi essere là, con la luna che si spacca sul mare nero e denso come pece, sentire il rumore della risacca, il lamento delle lunghe onde che si stiracchiano sul bagnasciuga e i sorrisi di Jemanjà che fa capolino tra i flutti; in lontananza sotto i lampioni di un anonimo lungo mare gli insetti fanno a cazzotti e i pipistrelli pasteggiano. La sabbia ti penetra sotto le unghie mentre affondi le mani e per i giorni che seguiranno la ritroverai tra i capelli, nei vestiti, come sale una seconda pelle; la vedrai scorrere nella doccia e sarà un deposito di granelli nella vasca; ti enrrerà in bocca e ti farà cigolare i denti, sarà un asciutto e raschiante pasto. Magari là, con il volto alzato ad osservare il Grande Carro e a cercare Cassiopea, per una semplice combinazione di istanti, riuscirai a vedere stelle cadenti mentre solcano il cielo, come biglie dorate che scivolano sul velluto della notte, su quel tappeto scuro e liscio dove incastriamo i nostri desideri. Devi vederle per capire che infine non sono stelle, ma qualcosa d'altro. E quando te ne accorgi allora scatta il crescere e la paura, perché temi che se tu avessi davvero ali per raggiungerle vedresti che sono solo lampadine e che qualcuno ogni tanto decide di spegnere tutto. E così ringrazi della speranza che quei sogni che esprimi ad occhi chiusi e desideri di vedere realizzati si avverino nel tempo limite della tua vita presente e che non rimangano solo pensieri e moti mentali. O a volte speri solo che gli Dei o chi per loro possano darti anche solo la possibilità, l'opportunità di essere vivo per lo scopo che desideri e non dover sempre sottostare a ciò che è stato, a volte per scelta e a volte per karma o caso, o per conseguenze di decisioni altrui in cui ti sei trovato coinvolto e impantanato per motivi talmente intricati che nemmeno Will Hunting, armato di una lavagna grande venti metri quadri e un esercito di gessetti, riuscirebbe a calcolare e districare in molteplici equazioni matematiche.
E poi, nella coscienza delle non stelle che cadono, magari vorresti chiedere solo che il mondo rimanga buio per un po' e che il sole smetta di splendere per nutrire l'egoismo che ti domina e la paura che ti violenta. Senza luce le ombre non ti possono inseguire. Senza il sole la notte è lunga, ma non mostra ciò che diventi e quello che tutto ciò che sei stato ti renderà. Perché magari, se fossero stelle davvero, i desideri li avvererebbero... e se mio nonno avesse avuto tre palle, come diceva un caro amico, sarebbe stato un flipper.
Spesso senza pensarci riviviamo ciò che dobbiamo pagare come una dura lezione. Ma a volte queste lezioni sono più dure e amare, sono più ruvide perché sai che arriveranno e raschieranno e graffieranno e morderanno come il gelo e come il fuoco. E quando arrivano non sei mai pronto. Cazzo. Mai. Anche se ti prepari nel modo migliore che puoi ti beccano sempre impreparato. Sei sempre in difetto, sempre in bilico. Come diceva il mio vecchio maestro di Karate: hai sempre il peso distribuito sul piede sbagliato. E come ogni volta mi guardo i piedi e vedo che ha ragione lui e che sono sempre io in difetto, sempre io ad aver fatto quell'errore stupido di calcolo e che così, via... come piume in una battaglia di cuscini.
E questa lezione, che dobbiamo imparare, non può mai essere una nuova possibilità? Ogni uomo e ogni donna dovrebbe poter avere una seconda possibilità. Ma quando ti vengono concesse ti appaiono come qualcosa che non fa parte di te, come qualcosa che viene tolta ad altri, qualcosa che devi pagare maggiorato. E allora non sono vere possibilità... non sono possibilità pulite di ricominciare. No, cazzo, sono sempre contaminate da qualcosa. Ed è proprio come quando entri in casa e hai le scarpe sporche di fango e ti accorgi che lasci impronte e cominci a girare come un coglione su te stesso osservando che lasci effettivamente segni per terra e che nessuno ti ha ancora insegnato come volare per non toccare il terreno. Un terreno che è la nostra stessa natura umana, e questa fisica pesante come macigni; è come avere le dita spezzate, gli occhi frullati. E schiavi, come siamo noi stessi, di questa continua trasformazione per la ricerca di ciò che siamo dentro, nella disconoscenza stessa di ciò che non vogliamo sapere: dal cioccolato fondente alla merda. Una minima trasformazione, solo minima, e a livello biochimico solo un rimescolare delle stesse sostanze manipolate in forme diverse. Ma non è forse così che viviamo? Ci leghiamo a volte involontariamente con le persone che conosciamo, che desideriamo, anche se solo per cinque minuti e non possiamo più toglierci di dosso la polvere che si deposita sulla nostra vita, la cenere che si alza dai falò che abbiamo acceso per distruggere e purificare e che discende di nuovo. Trasformata ci si attacca ancora addosso, come scura fuliggine. Come limatura di ferro attratta da una calamita. E a volte vorresti solo fermarti e dire: "Quando dovrò finire di pagare? Quando arriverà il giorno in cui avrò pagato il mio debito?"
Io non credo sia sbagliato desiderare. Fa parte della nostra natura. Mi chiedo a volte se è sbagliato desiderare che altri non desiderino qualcosa che tu non puoi dare. Se è sbagliato sentir bruciare dentro come alcol su una ferita aperta quando noti il desiderio negli occhi e sai che questa cosa decentra da te. Perché il desiderio lega le persone, soprattutto se non consumato, ma nello stesso tempo strappa i legami già esistenti; a piccoli morsi, dentro, ti senti straziare piano piano.
Forse sono solo le ombre, che sempre inseguono, sempre stanno là attaccate ai talloni e non ti lasciano andare. E sì che Peter Pan chiese a Wendy il favore di cucire la sua ombra ai piedi, affinché non scappasse più. Ci sono alcuni momenti in cui lo prenderei a pugni, se potessi, per una decisione come questa. Ma il significato di quella "perdita" fa parte di un messaggio più grande... come ci insegna il pescatore innamorato nella novella di Oscar Wilde: separati di proposito dalla tua ombra e perderai la tua anima. Il vecchio folletto sempre giovane non voleva perdere la sua anima. Ma se la tua ombra fosse, in realtà, solo il peso dei pezzi di intonaco staccati della tua vecchia vita, tu avresti desiderio di portartela dietro? Non avresti voglia di abbandonarla per strada, ricominciare, senza dare una mano di bianco, ma scarteggiare finché le unghie non si sono spezzate e lunghi segni rossi di sangue hanno sporcato i muri? Non correre così il rischio di abbandonare qualcosa indietro, lasciare che l'inquinamento di ciò che è stato un tempo se lo consumi e che, libero da zavorra, tu possa continuare a leccarti le ferite. O magari, chessò, immergerti in acqua salata, sotto una luna color latte e lasciare che il mare ti purifichi e che il tuo sangue, sparso tra le onde (dopotutto a che serve il sangue se non ad essere sparso?) attiri famelici squali. Un passo dopo l'altro, sciogliersi e donarsi e così poi sentirli mentre si azzannano tra loro per il primo che pasteggi. E così far parte delle cose nelle cose, e poi vivere in quelle stesse cose, come il sorbo piantato sulla pianta di Rowan Morrison. E farò foglie e frutti, anche nella sabbia del fondo del mare e le arselle faranno dimora sul mio corpo e i paguri e le stelle marine si aggrapperanno alla mia pelle cotta e smembrata e i pesci giocheranno con i miei piedi. Nutrirò per essere nutrito, in lughe distanze granchi verranno a prendere parte di me. E non importerebbe davvero il quando e il cosa, ma solo il come e il perché. Una scelta tra la salvazione e la dannazione, tra la Torre Nera e Jack il figlio simbolico: "Vai allora, ci sono altri mondi oltre a questo". Il termine stesso di salvezza, rendenzione, tutto cambierebbe. Perché il sacrificio, che sia il precipitare in un abisso per uno scopo più grande, o solo il privarsi per l'amore deve essere qualcosa che ti viene da dentro. Ma il più delle volte il sacrificio ha un fine che non è quello per cui davvero lo sentiamo. Ed ecco che quella stella scoppia in volo e non arriva mai al suolo; precipita soltanto solcando il cielo della notte. Una sfera di immensità che si disintegra senza lasciare altro che un'immagine fasulla impressa nella retina. Un'esplosione da togliere il fiato, come mille fuochi d'artificio che creano un fiore di colori sgargianti nel cielo. Un glifo, un'infiorescenza, un giglio fiorentino di bellezza. Qualcosa che gira pazzamente senza emettere suono od energia palpabile e visibile, ma che percepisci come un cerchio immenso, vasto e spiraliforme nel suo crescere. Qualcosa che ti colma e ti fa perdere il fiato. E questo piccolo pugno, chiuso dentro al petto, che batte e batte e batte quasi da far scoppiare la gabbia toracica... Se solo potesse parlare di ogni battito che ha fatto: dal primo all'ultimo, e raccontarci quelli che ha saltato, quelli che ha vissuto quando abbiamo baciato una persona speciale, quando abbiamo urlato al cielo, quando la morte ha fatto capolino nella nostra vita, sia come cambiamento che come separazione. Cosa ci direbbe? Che canterebbe quando l'incendio ha distrutto tutto lasciando fertile cenere, o quando la tempesta ha devastato portando seco semenze, quando l'inondazione ha spazzato via depositando limo, quando il terremoto ha spaccato liberando germogli? E tutte quelle volte qualcosa d'altro, di diverso, è nato, cresciuto, vissuto e ha cominciato un nuovo ciclo. Il sacrificio, il significato profondo, intrinseco di ciò che è desiderare qualcosa e barattere qualcosa per averla, non è forse nascosto anche in questo? Nella stessa stella che solca il cielo, smembrandosi sulla scia, dividendosi e polverizzandosi, mentre stiamo là, ad osservarla. E sappiamo che non è una stella, ma che l'illusione che lo sia è così meravigliosa che ci lasciamo cullare dalla bellezza e dalla speranza.
O forse non solo speranza, ma amore, bellissimo e dolcissimo, come calici di vino sempre pieni... e paura, immensa, schiacciante, di non riuscire ad essere abbastanza forti e capaci e abili per difenderlo. Soprattutto da quelle ombre, dannate ombre, che mai si fermano e che sempre ti inseguono. Dannato Peter, sempre giovane e spensierato... tu sei un esempio che non ha paragone confronto al Pescatore. Tu hai cucito la tua ombra per amare ed essere libero. Lui ha barattato la sua per poter amare chi aveva scelto.
E tu... tu che faresti? Forse urleresti, e correresti, fino in capo al mondo? Forse ti getteresti dalla rupe più alta, solo a sapere che questo servisse? Forse ti strapperesti i denti e le unghie e i capelli? Questo è quello che io sopporterei più volentieri di rimanere privo d'amore e di essere nutrito da questa paura, sconfortante, angosciante, artigliante. A cucchiaiate colme, con il minimo tempo per prendere un lieve respiro e poi il piatto è riempito nuovamente e via, altre cucchiaiate in gola, brucianti, come olio bollente. E tu dannato ispirito... tu che in crocicchi e flutti sotterrati al tuo verminoso letto fai ritorno perché non scruti le tue colpe il giorno? Tu che sfuggi la notte in volontario esiglio, fido all'oscurità dal nero ciglio... dimmi... tu che faresti?

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