The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Oestara 2009

Oestara 2009

Alcune cose nella vita sono come i baci. Devi prenderle o darle quando è il momento. È terribilmemte frustrante dover vivere le sensazioni in brevi secondi, ma talvolta è così e dobbiamo rassegnarci a questa cosa. Forse credo che se potessimo scegliere, come mille altre volte, non sarebbe diverso. Dico... non le vorremmo diverse.
Quanto ho aspettato, eh? Tanto. Quando ti ho chiesto se era troppo mi hai detto che era il tempo necessario. C'era quella particella volante di scusa nella mia voce e tu l'hai colta con maestria, annullandone il potere lapidario che esercitava su di me. Mi sarebbe piaciuto pensare che ti avrei trovato clemente con la tua vita, e invece... invece non è stato così, purtroppo. Il tempo non è stato gentile con te, ma il suo scorrere, per quanto talvolta tenda a graffiare fino in fondo, proprio come sabbia, nel tuo caso non è il totale responsabile. Quella ciocca di capelli bianchi, quel sorriso scuro di denti poco curati. Eppure eri ancora tu, nel tuo protagonismo. E sorridevo a guardarti perché ho avuto così sete delle tue movenze, della peculiarità dei tuoi gesti, delle tue espressioni, che ora che potevo rivederle mi pareva, d'un tratto, che non fosse passata che una sola manciata di minuti dai giorni così lontani in cui insieme concepivamo e partorivamo arte. Non sembrava così strano alla fine essere lì, vederti realizzato nel tuo lavoro, nei tuoi sogni. È stato uno di quei momenti, mentre eri circondato dalle persone che celebravano con te la tua vittoria, in cui mi sono reso conto che la nostra vita non va avanti senza il nostro aiuto. È un lavoro difficile stare al mondo, insomma.
Per un paio di momenti volevo rapirti da dietro al bancone e farti vedere la foto di mio figlio, perché anche io avrei voluto vantarmi di avere qualcosa di bello, ma poi ho allontanato quel pensiero. Non ne avevo bisogno. Quella era la tua serata e io ero lì a gioire con te. Così, finito il mio cuba libre (che doveva essere una coca cola ma tu non hai sentito ragioni) ti ho salutato e ti ho promesso che sarei tornato quando non c'era calca.
All'uscita ho incontrato la tua ex. Erano dodici anni che non la vedevi, mi hai detto. Il volto non mi era nuovo e anche lei si ricordava di me, ma non sapevamo dove ci fossimo visti. Il mondo è piccolo. Io avevo dalla mia il peculiare vantaggio di aver cantato di lei senza conoscerla. Una canzone incazzata, dal titolo "Ash", che significa "Cenere". Mi ricordo ancora adesso le parole piene di risentimento che le avevi versato addosso. Io non credo di aver mai provato una tale furia nei confronti di una mia ex, a parte un'occasione soltanto. E sì che non è che alcune donne con me siano state molto gentili. Anzi. Credo che abbiano pensato che al posto del cuore avessi un rotolo di carta igienica, dato che ci si sono pulite il culo. Il più delle volte non ho capito subito perché lo abbiano fatto, ma poi sono giunto ad alcune ipotesi... e credo che sia la rabbia del "non poter avere" che ti fa disprezzare. È alla base di tutto. È un po'... come dire... la via semplice per giustificare i sentimenti incompresi. Una via di assoluti insomma. Anche tu alla fine conoscevi quella via. E quando ti ho stretto la mano, quel giorno fatidico di coraggio e disperazione mescolati, sapevo che stavamo tracciando una linea che puzzava di definitivo. La Dea ha voluto che non fosse così e con questo immane ritardo sono arrivato là, ad incontrarti su quel tuo isolotto dove non ti scostavi perché non dovevi essere tu a farlo. E hai atteso, giustificato dalla rabbia, giustificato dal dolore, giustificato dalla tua visione di giustizia e comportamento. E che ne sarebbe stato infine del resto? Dico, se non avessi capito queste cose, nel corso del mio girovagare tra le parafrasi del mondo e non avessi deciso di scoprire se il tuo telefono era sempre quello e perché non l'avevo mai cancellato dalla mia rubrica, che sarebbe successo? Saremmo rimasti arroccati come le torri negli scacchi scorgendoci di lontano in attesa di una mossa dell'altro? Adesso mi sembra così stupido, tutto quanto. E invece è stato un dilemma irrisolvibile per anni. Attendevo un segno che non arrivava. Ma ero sicuro che se fosse arrivato io me ne sarei accorto? E se fosse già arrivato ma io tenevo gli occhi serrati? E se quel segno fosse passato oltre, per balenarmi alle spalle mentre io proseguivo sul mio cammino, incurante di averlo ormai oltrepassato?
Forse dobbiamo davvero smetterla di parlare di lotte per ottenere ciò che vogliamo e cominciare a lottare davvero, se davvero lo vogliamo. Il novanta per cento delle volte abbiamo a che fare con degli esseri umani e non con creature divine. E anche loro possono sbagliare, e se loro possono farlo e riconoscerlo, potranno forse capire, e riconoscere che, stesso germe e stessa sostanza, anche noi possiamo sbagliare, e che questo girotondo non si ferma mai, nemmeno quando per errore pestiamo i piedi a chi ci sta vicino. So che talvolta è dannatamente difficile, specialmente quando devi guarire dentro, in profondità, di ferite che non sai nemmeno perché ci sono e chi te le ha inflitte, ma che ti hanno portato ad azioni che a loro volta hanno ferito gli altri. Come quella storia che mi aveva sconvolto negli anni '80, udita sul telegiornale, e che parlava di quella bambina della mia età dell'epoca, circa 9 anni, che aveva scoperto suo fratello di due anni che giocava con una siringa trovata a terra, e nella lotta per togliergliela di mano si era punta, infettandosi con il virus HIV. E così adesso mi domando: ma se non avesse fatto niente per togliergli quella siringa di mano? Magari il bambino non si sarebbe punto; avrebbe perduto semplicemente l'interesse e tutto sarebbe andato bene. Capita con i bambini. A volte invece interveniamo nella vita degli altri, nella nostra... per paura. E lo facciamo il più delle volte entrandoci come un Panzer tra le vie di una vecchia città. E l'equilibrio che crediamo di dover salvare, in realtà lo stiamo solo distruggendo una volta di più.
Ci sono momenti della mia vita che mi appaiono così meravigliosi che darei due dita di una mano per tornarvi e riviverli. Ma come tali, talvolta il pensiero che li ho vissuti mi basta. Altre volte invece vorrei solo riarrotolare il nastro e fare i dovuti tagli alla sceneggiatura per renderla vincente. Mi chiedo se mi servirebbe per vivere meglio l'oggi e abbandonare lo ieri al passato. Forse vedete... alcune persone non hanno armi di orgoglio per ferirti e quindi divengono cieche. E invece non capiscono che è proprio quello che talvolta vorremmo. Non essere feriti, ma essere ad armi pari e poter così avere un confronto senza rifugiarsi nel "è colpa mia è colpa tua è colpa mia è colpa tua", dal quale non si esce perché turbine senza pari. Dico... se pensi che io abbia un coltello in mano e ti senti attaccata, prendi in mano un coltello anche tu e confrontiamoci, per lo meno so che posso difendermi senza attaccare e tu lo stesso. E per lo meno avremmo la dimensione di ciò che possiamo fare per ferire l'altra persona, in modo che, sapendolo, capiremmo anche come evitarlo. Invece si oscilla nell'eterna incognita, sotto la cascata che cade e senza sapere da dove viene e dove va a finire l'acqua che ci investe. Perché ogni tanto è così che bisognerebbe fare. Dico... che so... sollevare un po' di cazzo di coperchi.
È una cosa che faccio, ogni tanto. Un po' anche perché è nella mia natura sollevare i coperchi. Mi ricordo che correvo su da mia nonna, due piani sopra a quello dove abitavo con i miei genitori, prendevo a calci la sua porta finché non veniva ad aprirmi e poi la scansavo di lato per proiettarmi nel suo angolo cottura, appena sotto il finestrone della mansarda dove viveva. Allungavo la mano sulle pentole che cuocevano sul fuoco e sollevavo i coperchi per vedere cosa stava cucinando. Come si arrabbiava, povera donna! Così, con quel mezzo sorriso che aveva sempre, andava da mia madre e le diceva in milanese: "Sai sel ga fà el to fiö?" (Sai che ha fatto tuo figlio?) e mia madre: "No, che ha fatto?". "Lü a l'è vegnü su, mì mel dervii la porta e lü l'è andà a sollevà i cuercc. Sai chi faceva inscì? El tò suocero!". (È venuto su, ho aperto la porta ed è andato a sollevare i coperchi. Sai chi faceva così? Tuo suocero). Da notare che non ho mai conosciuto quella sagoma di mio nonno. Da qui, ho capito che ci sono tradizioni ereditarie che valicano il tempo stesso. O magari io stesso sono mio nonno e ancora non lo so. Qualunque sia la risposta... ha poca importanza. La mia peculiarità di sollevare i coperchi alla fine è legata a doppio filo con il desiderio di capire.
Una delle cose, vedete, che ho imparato questo sabba... è che ci sono cose che vanno dette al momento. Dal "ti amo" al "mi dispiace", il peso cambia a seconda di quando le si dice. Sarebbe bello per tutti che non fosse così. Quando il momento passa, quando tutto è diverso... quando si sono accumulate palate e palate di terra sulle persone che abbiamo sepolto... rimane solo il rimpianto di non aver detto, di non aver fatto. E bisogna capire che non sempre è possibile recuperare il tempo perduto ripetendo quelle parole diecimila volte dopo. Sarebbe bastato dirlo una volta sola nel momento giusto. Siamo un po' schiavi dei sentimenti, lo dico sempre.
Io ho aspettato cinque anni per parlare con te. E adesso mi sembra di essere stato uno stupido perché vedevo mura invalicabili là dove c'era solo nebbia. E nemmeno tu hai cancellato il mio numero dal tuo telefono. Quindi come me... che cosa speravi? Forse hai lasciato aperto di quello spiraglio la porta per far sì che se mi voltassi indietro... saresti stato disposto a parlamentare? E mi viene in mente quel passo bellissimo di Charles Dickens, direttamente da "David Copperfield:
"L'amavo... e amo il suo ricordo... troppo profondamente... per poterle far credere di essere un uomo felice. Potrei essere felice solo... dimenticandola... e credo che non potrei sopportare che le si dicesse che l'ho dimenticata. Ma se voi, signorino Davy, che siete così istruito, potreste pensare di dirle qualche cosa che la portasse a credere che non sono stato ferito troppo a fondo, pur amandola e rimpiangendola: qualche cosa da portarla a credere che non sono stanco della vita e tuttavia spero di rivederla senza macchia là dove i malvagi cessano di fare del male e gli stanchi hanno riposo... qualche cosa che possa sollevarle la mente tormentata, e tuttavia non farle pensare che io possa mai sposarmi o che sia possibile che un'altra donna possa essere per me quello che era lei... vi prego di dirgliela... insieme alle mie preghiere per lei... che era così cara."
Se ci fosse possibile possedere l'arte taumaturgica di poter sciogliere i nodi che ci lasciamo dietro, come il cordone della strega, sapendo che potrebbe farci stare meglio, mi chiedo se sarebbe terapeutico farlo o meno. Dovremmo rifiutare l'assolutismo per nostra stessa natura, perché alla fine è quello di cui siamo impregnati... e invece poi ci troviamo a discutere sempre delle stesse cose, e come diceva quel detto milanese: "Chi vùsa pusè la vaca l’è sua". Ma non risolviamo niente così. Non risolvevamo anni fa e non risolviamo adesso, perché non riusciamo a perdonare noi stessi prima di perdonare l'altro. Come è difficile essere adulti. E io che non vedevo l'ora di crescere. Come mi piacerebbe tornare indietro, passo dopo passo, uno alla volta, riavvolgere e rivedere tutto, senza la presunzione di poter sistemare... ma solo vedere per capire. Vedere per capire. Cazzo. Ecco ancora la mia peculiarità di alzare i coperchi che si fa sentire.
Ti ho visto là. Eri al bar. Facevi roteare le bottiglie come frisbie, i piatti con le cibarie giungevano sul tavolo dell'aperitivo come dischi volanti. Maledetto tempo che sgretola le parole dentro di noi. Come avrei voluto che tutti sparissero in un istante. Avere sotto mano una bacchetta di nocciolo e fenice, dodici pollici e gridare: "Immobilus!" per bloccare tutti quanti lì e avere tempo per me e per te. Tutto quello che ti volevo dire dove è andato a nascondersi? Devo proprio avere dei buchi nelle tasche dato che perdo le parole per strada. Sono stato così spesso proclamato "signore delle parole" e invece mi sento solo "schiavo delle parole", invece che loro signore. Che bella merda invecchiare. Farei volentieri cambio con i tuoi capelli bianchi se potessi cedere un po' di pensieri che mi affollano. Non che tu non ne abbia, credo. Siamo sempre stati come Hanozri e Pilato nel capolavoro di Bulgakov:
"- Il suo romanzo è stato letto, - prese a dire Woland, voltandosi verso il Maestro, - ed è stato detto soltanto che, purtroppo, non è finito. Ecco, ho voluto mostrarle il suo eroe. Sono quasi due millenni che sta qui, su questo pianoro, e dorme, ma quando viene la luna piena, come vede, lo strazia l'insonnia. Essa tormenta non solo lui, ma anche il suo guardiano fedele, il cane. Se è vero che la viltà è il vizio piú grave, il cane, forse, non ne porta la colpa. L'unica cosa che questo animale coraggioso temesse, era la tempesta. Ma chi ama, deve dividere la sorte di colui che egli ama. - Che cosa dice? - chiese Margherita, e il suo volto completamente tranquillo si appannò d'un velo di compassione.
- Dice, - rispose Woland, - una sola cosa. Dice che anche quando c'è la luna, per lui non c'è pace e che brutto è il suo mestiere. Cosí dice sempre, quando non dorme, e quando dorme, vede una sola cosa: una strada illuminata dalla luna, e vuole percorrerla e parlare con l'arrestato Hanozri perché, come egli afferma, non ha finito di dire qualcosa allora, tanto tempo fa, il giorno quattordici del mese primaverile di Nisan. Ma, ahimè, per questa strada non gli riesce di incamminarsi, e da lui non viene nessuno. Allora, che fare?, gli tocca parlare con se stesso. Ma, è pure necessaria un po' di varietà, e al suo discorso sulla luna egli sovente aggiunge che piú di ogni altra cosa al mondo odia la sua immortalità e la gloria inaudita. Afferma che muterebbe volentieri la sua sorte col vagabondo straccione Levi Matteo.(...)
- Ebbene, ora lei può finire il suo romanzo con una sola frase!
Il Maestro sembrava che già aspettasse queste parole, mentre stava immobile e guardava il procuratore seduto. Egli atteggiò le mani a portavoce e gridò in modo che l'eco rimbalzò pei monti deserti e brulli:
- Sei libero! Sei libero! Egli ti aspetta!
Le montagne trasformarono la voce del Maestro in un tuono, e questo tuono le distrusse. Le maledette mura rocciose caddero. Restò soltanto il pianoro con la scranna di pietra. Sul nero abisso, nel quale erano finite le mura, s'accese una città immensa, con gli idoli lucenti che regnavano su essa, al di sopra di un giardino rigogliosamente cresciuto nel corso di molte migliaia di lune. Fino al limitare di questo giardino si protese la strada illuminata dalla luna tanto attesa dal procuratore, e per primo lungo di essa si gettò a correre il cane dalle orecchie aguzze. L'uomo col mantello bianco foderato di un rosso sanguigno si alzò dalla scranna e gridò qualcosa con voce rauca, esausta. Non si poteva capire se stesse piangendo o ridendo e che cosa gridasse. Si vedeva soltanto che dietro al suo fedele guardiano lungo la strada illuminata dalla luna correva a precipizio anche lui. - Devo andare là, seguirlo? - chiese inquieto il Maestro, toccando le briglia.
- No, - rispose Woland. - Perché seguire le orme di ciò che ormai è finito?
- Allora là? - chiese il Maestro, si voltò e indicò con la mano là dove, alle spalle, si era delineata la città da poco abbandonata con le torri di marzapane dei monasteri e col sole in mille pezzi nei vetri.
- Neppure, - rispose Woland, e la sua voce s’ispessí e colò sopra le rocce. - Romantico Maestro! Colui che tanto brama di vedere l'eroe da lei inventato, or ora messo in libertà da lei stesso, ha letto il suo romanzo -. Qui Woland si volse verso Margherita. - Margherita Nikolaevna! Non si può non credere che lei abbia cercato di inventare il futuro migliore per il Maestro, ma, veramente, ciò che io vi propongo, e ciò che Jeshua ha chiesto per voi, è ancora migliore! Lasciateli soli loro due, - disse Woland, piegandosi dalla sua sella verso la sella del Maestro e facendo un cenno verso il procuratore che si era allontanato, - non disturbiamoli. E forse, su qualcosa finiranno per mettersi d'accordo."
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Riesco a farlo capire anche a te, con queste parole? Nella ricerca di non si sa cosa, quando non sai cosa cercare, quello che trovi è comunque qualcosa? Vale la pena distruggerlo solo perché credi che non sia quello che stavi cercando? Purtroppo, vedi... quando si diventa padri (posso sapere solo questo punto di vista) si rimane padri per sempre, da che mondo e mondo. E padri lo si è in maniera autonoma ai propri figli. Lo si è in via universale. Almeno. A me capita così. È per questo che sento il bisogno di provarci, di non mollare. Cosa possiamo insegnare a chi ci sta intorno, in questo continuo insegnamento che è la vita, se non la regola principale su ogni altra: "lotta per quello cui tieni"?
Tornerò da te. Porterò un regalo ora. Voglio che le cose ti vadano meglio di come ti sono andate finora. Voglio davvero potermi riscattare con te. Voglio pensare che ci vogliamo ancora bene e che anche tu mi vuoi ancora bene e che possiamo superare questa cosa, perché poteva essere dieci volte peggio di così. E potrebbe sempre essere peggio anche quando crediamo invece che potrebbe essere meglio. È il dare il giusto peso alle cose che abbiamo, belle o brutte. Un po' ci capitano, un po' ce le siamo scelte.
Per tutto questo tempo, lontani, su questi piani diversi, che permeano l'uno all'altro ma che paradossalmente non si toccano mai... che abbiamo fatto? Io parlavo di te, tu parlavi di me, si invecchiava, si viveva, si ricordava? E quanto tempo abbiamo perduto così facendo? Tempo che potevamo spendere in tutti quei modi meravigliosi che pensavo di conoscere e di cui predico sempre a chi mi guarda con aria sognante. Perché alla fine mi sembra sempre di poter vedere con chiarezza tutto quanto quando non riguarda me direttamente. E invece, dentro... ho questo groviglio di serpenti che si mordono e si avvelenano e si divorano, come ouroboros. Sapendo che ci sono non li posso domare, non mi posso avvicinare perché ecco che i segmenti finali dei loro sonagli vibrano e i loro denti gocciolano. Maledetti crotali, quando avete preso dimora dentro me? Chi vi ha deposto quelle uova maledette? O forse non li abbiamo tutti, questi maledetti serpenti? E ognuno è capace di vedere e snodare le spire solo di quelli che risiedono nelle altre persone, senza avere il potere, la capacità, l'arguzia, la forza e il coraggio di mettere la mano nel proprio groviglio e chetare il tutto. Come l'analista che un giorno alla settimana va da un analista. Devi imparare a farti aiutare per aiutare gli altri. Oh, come è vero.
Adesso sospiro un po' meglio, e smetto di sognare di te. Non sapevo dove eri, anche se sapevo dove trovarti. Non sempre lo spazio e il tempo e la mente viaggiano sullo stesso piano. Castaneda le chiama striscie parallele. Valicale se sei capace di tornare.
Un giorno, quando ho capito che era il momento sono salito su un palco, ho preso il microfono, ho cantato tutto e le luci erano spente. Le luci si sono accese e il pubblico era andato via. E mi domando ora... ma il pubblico c'è mai stato? O è stata solo la sensazione di un coito intenso che ti lascia senza fiato ma che si esaurisce di desiderio prima di raggiungere il picco? Chi lo sa. Non lo so più.
Forse, come ho imparato dalla signora Hokamoto in quell'aneddoto Zen che mi hanno lasciato all'incontro in quel monastero domenica scorsa, dovrei prendermi del tempo per smettere di pensare. Perché il pensiero rovina l'uomo se non ha cognizione di completezza, se non trova via di uscita nell'azione o nella risoluzione; quindi se non trova una via di manifestazione che possa renderlo compiuto nella sua forma e nella sua mutazione da embrione vivo germe del brodo primordiale mentale ad uno stato elevato di forma fisica o spirituale propria di una via per realizzare ciò che pensiamo della nostra vita.
Così sento il mio calderone che urla divinazione. È lì che pende e ogni tanto mi pare di sentirlo sorridere sornione nelle sue cuciture di ferro battuto; come se volesse dirmi: "Io so e tu no". Ma non si possono risolvere le cose sempre così: interpretando i segni. Talvolta bisogna realizzare ciò che desideriamo, per capire se lo desideriamo davvero. E pagarne lo scotto, se dobbiamo.
Ancora.
E ancora.
E ancora.

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