The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Oestara 2012

Oestara 2012

Le sento più vicine le sacre sinfonie del tempo con una idea: che siamo esseri immortali caduti nelle tenebre, destinati a errare; nei secoli dei secoli, fino a completa guarigione. Guardando l'orizzonte, un'aria di infinito mi commuove; anche se a volte, le insidie di energie lunari, specialmente al buio mi fanno vivere nell'apparente inutilità nella totale confusione... che siamo angeli caduti in terra dall'eterno senza più memoria: per secoli, per secoli, fino a completa guarigione.

Mi ricordo di te. Ti trovasti innanzi a me, come una mandorla cosparsa di luce. Forse solo la voragine scura di una vagina dentata, il cui profilo si stagliava su uno sfondo pennellato di notte. Filtravi e vibravi e io sentivo quella voce che era un canto che si alzava. E sotto quei campanelli, lenti, inesorabili, fatti di armonici, come quando cantavo di quelle parole piene di silenzio e dicevo che il mio amore dentro te non sarebbe morto mai. Forse non sarebbe mai stato possibile. Ed eri quella rosa a quattro petali con i due cerchi concentrici, il fiore dell'apocalisse, glifo alchemico di Giordano Bruno. Ti ho vista balenare, come rivelazione del divino e vibravi nella sua voce mentre ero lì, innanzi. Quell'uncino che avevo qui, ad ancorare manipura, che lo tratteneva con tutti e dieci i petali chiusi come un alkekengi sul suo frutto delizioso, mi tirava come una carpa che cercava la libertà. Lo sentivo strattonare, forte, violento, come se avessi fatto bungee jumping attaccando l'elastico ad un piercing. Ti vedevo dritta e rovescia, positiva e negativa ed eri sia uomo che aquila che toro che leone. Una sola conoscenza, un solo libro. Quattro anelli che determinano la perfezione del dominio dei due mondi e che chiamavano dagli abissi delle acque inferiori alle torri di quelle superiori. Come potevo?
Io lo sapevo che cosa dovevo fare. Il mio corpo urlava, ma io sapevo cosa andava fatto. Eppure ho tentennato. Quante volte la paura ci frena; apparentemente ci disonora. Sempre a fuggire nei cicli su cicli, su cicli. Ma dove, poi? Onoriamo degli dei che in ogni momento della loro storia, da che mondo e mondo si sono infuriati, hanno amato, ammazzato, tradito, sono stati gelosi, impenitenti, arroganti, superbi, violenti, amorevoli, crudeli, gentili, egoisti, coraggiosi, vendicativi. Hanno rispecchiato quella nostra stessa immagine e somiglianza che riconosciamo pienamente perché è del tutto umana. E noi li onoriamo e li amiamo e li temiamo proprio nelle loro imperfezioni divine, che divengono perfezioni di carattere e rappresentazione stessa di diversi aspetti perché ci è difficile, se non impossibile, vederli come imperfetti in quanto divini. Ma in realtà è questo che ci attrae di loro. Se fossero così perfetti non dovremmo temere la furia in risposta ad un'offesa da parte nostra.
Mi ricordo che ti vidi, alzata, sospesa, le gambe leggermente incrociate, le mani allargate. Intorno a te brillava la mandorla. Non sono forse maturo? Mi chiedevo. Ma quanto dovevano danzare ancora, al suono dei flauti con battito di zoccoli. Le rosse fragole maturavano all'ombra delle foglie seghettate e la Magnolia liliiflora schiudeva i suoi fiori color variegato all'amarena, al punto che veniva voglia di mangiarli.
Alcuni sostengono che sia giusto perdonare quando è tempo, come per guarire. Altri che bisogna farlo quando si è pronti, proprio come per guarire. Io non so cosa sia giusto. Nella mia vita ho ferito, molto spesso, ma mi sono sentito ferito da altre persone, chi più e chi meno. Dare e avere è parte della vita e dello scorrere. E bisogna provare entrambe le cose nel medesimo modo per capire e crescere. A volte forse bisogna però avere la maturità di andare avanti, perché spesso siamo noi che permettiamo ad altri di avere potere su di noi e diamo loro potere ritenendoli degni della nostra attenzione. Questo è un processo di guarigione, è una cosa che deve seguire alcune vie precise, uniche per ognuno di noi. A volte penso che questo mio anello, appeso al collo, porti con sé tutto il peso dei miei immensi fardelli. E forse avrei bisogno proprio di un Daily per portarmeli dietro, o magari di un Samvise Gamgee personale che porti me perché non può portare lui per me. Ma io credo di aver dedicato anni alla comprensione di ciò che succede, forse anche troppi, al punto che è il caso che io cominci a dedicare anni all'accettazione e alla metabolizzazione di ciò che succede.
A volte penso di essermi scelto proprio un ruolo del cazzo. Una mia cara amica sostiene, essendo fatalista, che noi facciamo ciò che gli dei dispongono. Io ho replicato che che dedicare la mia vita ad un cammino e alla spiritualità, intesa come sacro e divino, sia il massimo che mi si possa chiedere, oltre direi che non posso andare, quanto meno in questa vita. E quando credi di scegliere e alla fine fai ciò che devi fare e non ciò che vuoi, o anche quando pensi di non aver scelta ma alla fine invece la scelta ce l'hai sempre ed è di non prendere in considerazione le altre alternative, in quei momenti, catartici forse, io mi accorgo che forse hai ragione tu: riceviamo dei doni; sta a noi decidere che cosa farne. E in fondo è vero, a volte le difficoltà ci appaiono così insormontabili e ci spaventano in questo modo perché non abbiamo la chiave interpretativa per affrontarle, per capirle, per viverle per quello che sono. Anche il perdono e la guarigione sono così. Crediamo di non essere in grado di perdonare quando in realtà in ultimo ci siamo dimenticati chi realmente dobbiamo perdonare. In questo assioma semplice semplice, possiamo fare di tutto per vivere o fare di tutto per morire. In qualsiasi senso lato che può essere preso a prestito come interpretazione. Ma a volte non è abbastanza nemmeno questo. A volte semplicemente ci serve capire se siamo pronti, se il nostro cammino è stato fatto, se ciò che siamo è il risultato del normale essere unito a ciò che dovremmo. Ma chi è veramente pronto e chi lo capisce da solo? A volte serve una compostezza, una consapevolezza, una conoscenza pulita e profonda per poter essere noi stessi la superficie dello specchio in cui ci affacciamo. A volte non riusciamo nemmeno a specchiarci senza provare schifo e vergogna per le verità che nascondiamo anche a noi stessi. A volte invece siamo talmente invischiati in queste menzogne che non siamo nemmeno capaci di vederle. Qualsiasi sia il motivo vincolante o scatenante, spesso dobbiamo spezzare questo ciclo, uscirne per poter ricominciare, come dice Battiato: è tempo di lasciare questo ciclo di vite. E se non lo facciamo, rischiamo di rimanere sempre indietro. Dopotutto il mondo non è ciò che vediamo o pensiamo di conoscere, ma ciò che sentiamo e ciò che desideriamo imparare di e da esso. La materia è invisibile e noi la interpretiamo con gli occhi solo perché la sua superficie riflette la luce, e non tocchiamo terra con i piedi ma fluttiamo sugli elettroni che compongono la materia, ma anche assumendo questo come verità scientifica preferiamo accettare ciò che non conosciamo come inconoscibile perché non crediamo che il cambiamento, anche se stravolge tutto ciò che pensiamo di conoscere, possa infine elevare la nostra vita che, ricordiamocelo, è solo ciò che noi facciamo di essa. Nella rincorsa del mettere in dubbio ciò che siamo, che vediamo, che sentiamo, possiamo ripartire dalla concettualità primaria e cercare di capire se e perché siamo vivi e così guarire. Ma senza scappare dal dolore. Perché la guarigione è dolorosa e viene da sé. Non possiamo prenderla, accettarla, imporla o viverla. No. Anche solo pensare che non sia dolorosa è una cosa stupida e arbitrariamente irresponsabile.
Io ti ricordo com'eri; avevi conchiglie sulla pelle e alghe tra i capelli, il tuo alito sapeva di mare, la tua pelle era salata e avevi addosso l'odore delle profondità. Anche solo guardarti è stato estasi, anche solo sfiorarti col pensiero è stato fare l'amore con te. Intorno a te brillava la mandorla, come duplice treccia, lo spaccato del mondo e della sessualità. Eri ciò che eri. Sei ciò che sei.
Da dove sei passata per giungere, infine, a me? Ti ho colta dal solito percorso, come erbe sacre mentre camminavo, inciampando, nel bosco, o forse eri sempre stata qui e semplicemente il percorso dovevo farlo standomene al mio posto, senza muovermi. Forse sei sintomo di maturità, forse sei tu stessa l'energia che spinge alla maturità. Ho quel sapore amaro in bocca e sento quell'odore strano nelle narici. Lo riconosco, so qual è. L'ho già sentito, incontrato, associato. Se deve essere sarà. Possiamo solo cogliere i grandi insegnamenti che ci arrivano dalle esperienze che abbiamo l'opportunità di vivere, nelle diverse fasi che hanno per noi, altalenanti, ondulatorie. Il daimon che vive prigioniero dentro di noi sa quello che è giusto. Ma se solo penso a come ho speso male il mio tempo che non ritornerà più, allora tutto questo prende un significato diverso e mi dico che le occasioni che ho avuto e che ho perduto, nonostante non debba rimpiangerle, sono comunque andate per sempre. Orizzonti perduti che non si scordano mai. Occasioni per amare chi ci ama, per quello che dura; occasioni per capire che c'è sempre un modo per mettere ordine e per andare avanti. Occasioni per cogliere fiori e per piantarli. E in fin dei conti, come ti dicevo, butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno, giuro che lo farò.
Quando sei arrivata all'inizio, sai, non riuscivo a capire. Eri come le gocce di rugiada quando cammini nel prato, senti i piedi fradici solo quando è ora di tornare a casa. Poi lentamente, come la marea che sale sul Bell Knowle, hai riempito ogni anfratto, portando via ciò che doveva andare e lasciando solo ciò che doveva rimanere. Hai eroso e divorato, lentamente, giorno per giorno, mettendo ordine e pulizia là dove non c'era spazio per altro. Sei stata come il falò di Azrael sulla spiaggia, che si spegne sfrigolando, ma senza smettere di esistere, solo fondendo le due materie e scindendosi, perché è quello che siamo, in fin dei conti: coesione e trasformazione e miscela di cose diverse. E come tale l'ascoltarsi. Ah, tesoro, mi ricordo sai? Eravamo in quella pizzeria, a Roma, e tu eri di fronte a me, bellissima e saggia soprattutto. Potresti praticamente essere mia madre. E mi ricordo che mi parlasti di come dovremmo imparare ad ascoltarci, ad ascoltare il nostro corpo, la nostra anima, noi stessi, e che il segreto della guarigione più profonda stia proprio in questo: ascoltarci. E sai, ci ho pensato tanto. Mi hai insegnato piccole ma grandi cose che ho usato come credevo fosse giusto, senza mai abusarne, senza mai dimenticare il ringraziamento che ti devo per avermele insegnate. E so che magari per te alcune cose possono sembrare semplici, automatiche, scambio continuo, come acqua e vento che ci passano attraverso, ma io sono ancora fermo alla gratitudine. E queste cose le sto incontrando di nuovo, nel tempo, e mi mettono di fronte a ciò che, coscienziosamente, devo ancora imparare. Perché molto spesso, dobbiamo capire come non lavorare contro noi stessi, come saper essere armonici con quello che siamo. E ne parliamo, sì, ma infine spesso tendiamo a fare di molte cose una lotta a braccio di ferro con quello che siamo, vorremmo, e ciò che, assurdamente temiamo. È anche per questo che a volte mi capita di avere quel dolore dietro gli occhi, che fa piovere sul viso in giornate di sole e ripenso al fuoco sacro su cui gettavamo zucchero per farlo divampare, seduti su tronchi tagliati a cantare canzoni popolari, suonare tamburi e flauti. Voi che eravate con me, ditemi, sospettavate forse che sarebbe cambiato così? Parlavamo delle cose più stupide o filosoficamente impegnate, immemori forse che il ciclo delle cose deve seguire un corso che non sempre ci è determinato sapere. Innalzavamo il potere, grattavamo via il primo strano della conoscenza. Come dice Battiato, i desideri non invecchiano quasi mai con l'età. E io a volte desidero ancora di sentire il rumore del vento tra i rami di quella quercia, l'odore di fiori di castagno che si mescolava a quello del legno bagnato e di animale, la sensazione ruvida delle felci e il lieve punzecchiare dell'iperico sulla tenera pelle da cittadino sotto i piedi nudi. Là dove ti conobbi e appresi, là dove sputai sangue sulla neve e seppellii il ventre rotto nel cerchio. Ma forse sono anche quelli orizzonti perduti. O forse semplicemente è come dici tu. A volte crediamo di perdonare alcune cose, ma in realtà non lo facciamo. A noi stessi e agli altri. Ma a volte, non è paradossale? Non abbiamo scalato le vette del paradosso? Rivediamo alcune cose e ci rendiamo conto che ci siamo cazzo dimenticati del perché eravamo arrabbiati, o forse lo ricordiamo ancora, ma nel modo esatto in cui ricordo il sapore del latte con l'Orzoro e i Corn Flakes; ma il ricordo del sapore è un ricordo, non è il sapore stesso. Posso ricostruire suoni, odori, sapori, immagini... ho un cervello allenato. Ma mi mancherà sempre qualcosa, perché perduto è il senso, un po' come innervosirsi con i semafori e gli stop, privi come sono di coscienza. Siamo su lontanissimi pianeti e crediamo di poterci sussurrare canzoni alle orecchie dell'uno e dell'altro. Invece no, noi andiamo solo avanti, gettandoci alle spalle ciò che non vogliamo vedere, come quando da bambino avevo paura di quelle cose che si muovevano nel buio e mi coprivo gli occhi per non vedere e mi consolava solo il rumore del lieve russare di mio fratello e il ticchettare di quella sveglia enorme che rimbombava nell'incavo del suo mobile letto a fianco a me, identico a quello dove dormivo io perché mia madre non ha mai voluto fare differenze tra noi. Forse questa confusione emotiva non è solo sua, sai? Forse ce l'ho anche io e l'ho trasmessa come non avrei dovuto fare.
Cosa significa in fin dei conti guarire e perdonare? Attendere che le ferite non lascino più alcun segno? Non lo so ancora. Diciamo che appena lo scopro mi faccio vivo io. Ma una cazzo di cosa la so. So che non significa dimenticare e andare avanti. So che significa soffermarsi su quella spina che si è infilata nella schiena, in quel punto, come dicevo qualche tempo fa, dove solo Kiriku riesce ad arrivare e che fa soffrire così tanto Karabà. So che significa sforzarsi di capire perché e non cercare di andare avanti e basta, ignorando tutto il resto perché preferiamo non vedere, perché ci fa male, perché il dolore ci spaventa.
Mi ricordo le due vie, e c'eri tu, con la bilancia da una parte e c'erano le otto spade e la fanciulla ma poi il nuovo che arrivava. E dall'altra Demetra e le spade di nuovo e infine la mandorla, di nuovo. E poi tutto è andato esattamente come mi avevi detto. Avevo una scelta e l'ho fatta. Forse ho creduto di stare nel mezzo ma infine no, ho scelto una delle due vie e gli dei hanno deciso di aiutarmi in alcune cose, in altre no. Ma poi ci si perde sulla metafisica dell'esistenza, su quei discorsi che si fanno sdraiati sulla sabbia in estate, ad assaporare lo scirocco pieno di salsedine che scompiglia i capelli e ti consuma le sigarette con velocità doppia. Ci si perde nel dubbio e nella conferma, tra la schiuma della birra e quella sensazione di lieve alterazione che ti fa sembrare tutto più significativo, come se dovessi dire l'assoluta verità che tutti dovrebbero ascoltare per realizzare quale sia il significato della propria vita.
Quanto è buffo tutto questo rincorrersi se non è portato ad un incontrarsi, come Polpetta quando decide che ora di lavarsi la punta della coda e lei le scappa sempre, beffarda. Riusciamo a divenire immemori di ciò che è nostro beneficio a volte, accecati come siamo da giustificazioni prive di reale riscontro, se non con quella soggettività talmente profonda da essere essa stessa come una ragnatela lassù nell'angolo del ripostiglio, o qualcosa che non è più oggetto reale di desiderio, rabbia, o sentimento anche solo fine a se stesso, ma quella semplice e circostanziale accondiscenza del vivere senza la quale in realtà non possiamo talvolta resistere perché fa parte di quel muro di emancipazione che è il significato stesso della nostra immagine riflessa. E così ci specchiamo e ci giustifichiamo, chiamando le cose o le persone con termini che non sono i loro nomi e questo proprio perché assurdamente sentiamo riempito e soddisfatto quel piccolo vuoto che la rabbia dopo la ferita ci lascia dentro. Sappiamo che non c'è niente che possa riempirlo finché esisterà, ma dobbiamo farlo perché non abbiamo il coraggio di dispiacerci per noi stessi per aver continuato a permettere a quel vuoto di esistere e farci male, anche se smettiamo di guardarlo. Non basta però smettere di guardare qualcosa o ignorare che esista o far finta che qualcosa non sia mai successa per permettere a quel buco, come a qualsiasi altra cosa, di smettere di esistere. L'unico modo è andare là, svuotarlo e vedere che cosa ne è rimasto di ciò che vi abbiamo lasciato dentro a marcire. E forse, poi, sorprenderci di quanto è passato dall'ultima volta che abbiamo contemplato realmente ciò che abbiamo lasciato lì dentro, come quando torniamo nei luoghi della nostra infanzia che non visitiamo da tempo e ci paiono così piccoli, così ristretti, dimensionalmente scorretti, senza renderci conto che siamo noi che siamo cresciuti. A volte è solo più facile far finta di dimenticarsi, perché non siamo costretti a tornare sui nostri sentimenti, i nostri rancori, i nostri dolori, credendo forse di averli stemperati abbastanza con urla e pianti e oggetti rotti per doverli affrontare di nuovo. E forse è davvero così. Ma di contro, se non tornassimo a guardare, non sapremmo mai se in fin dei conti ci stiamo ferendo da soli o qualcosa c'è ancora che ci può avvelenare.
Piccola grande mandorla, rosa a quattro petali, ora, finalmente ho capito.

V.