The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Oestara 2013

Oestara 2013

Non c’è dolore ma ti stai allontanando. Una nave lontana che fuma all’orizzonte; arrivi solo ad ondate. Le tue labbra si muovono ma io non sento ciò che dici. Da bambino sono stato malato. Avevo la sensazione delle mani gonfie come due palloni. Adesso provo quella stessa sensazione. Non posso spiegartelo, non lo capiresti. Questo non sono io. Sono diventato piacevolmente insensibile

E tu? Tu chi eri? Chi saresti stato, se fossi stato? E chi sarei io se fossi stato tu che non sei mai stato?
Nel qui e nell'adesso, dico, come Emily Dickinson chiusa nella sua camera bianca a sentire la rana che gracida il suo nome per tutto giugno ad un pantano in estasi di lei. A volte penso di volerti guardare, per odiarti o per amarti, per dirti quanto a volte non essere implica comunque l'esistere, seppur privi di colpa per il non essere stati. Potrei volerti dire grazie, dopotutto te lo dovrei, ma potrei volerti dire vaffanculo, perché la tua ferita ha sanguinato su di me, in parte.
Sai, nonostante tutta la filosofia spicciola che non vale un cazzo ma di cui così spesso ci riempiamo la bocca come faceva la mia professoressa di italiano con le locuzioni latine, non riesco a trovare nulla, davvero nulla, che valga a spiegare ciò che avrei da dirti. Forse solo ti abbraccerei, ti cullerei, ti farei sentire al sicuro, perché se c'è qualcosa che questa filosofia spicciola del cazzo mi ha insegnato è che amo, dunque mi divinizzo. Ma nella meravigliosa fallibilità e disarmonia armonica che la vita continua a propinarci come stupenda diversità e asimmetria, su questo pazzo pianeta che corre a questa velocità pazzesca, rincorrendo la mia ombra e fagocitando la verità senza nemmeno poterla comprendere, come se fossi un buco nero al centro della costellazione del Cigno, proprio lì a fianco di Deneb, Gienah, Albireo, Rukh e Sadr, e che possa spalancare anche io le ali, mutato in punto di morte dal dolore di un padre divino, ecco che questa filosofia mi carezza il volto e mi stringe le mani, mi permette di accoccolarmi sul suo seno, smettere di avere paura; sentirmi a casa.
Ma in fondo più passano gli anni e più mi sento come il bosone di Higgs: sconosciuto a me stesso nella mia stessa natura se non per il segno che lascio del mio passaggio. Ecco perché mi chiedo chi saresti potuto essere. E ti immagino forte e vincitore, capace di far breccia lì, dove io non sono stato in grado e che tu possa essere la rivincita di quel qualcosa che non ho mai avuto e che ormai non troverò mai più. Quanto può essere felicità l'ignoranza. Non sapere ti consente di immaginare o di considerare sulla base di ciò che sai, senza andare oltre, senza avere risposte. Ecco perché molti preferiscono non sapere. Ancora adesso mi domando se avrei voluto sapere di te, o se era destino che io sapessi.
Una mia cara amica sostiene che alcune cose sono incroci karmici e quando è capitato a me, nel corso degli anni, ho avuto modo di capire che è davvero così. E adesso, sai, lo guardo e cresce e mi rendo conto che non può essere lui la mia redenzione, come non può essere lui il portatore della mia maledizione. E se esiste una cazzo di cosa di cui sono assolutamente certo, tra le miliardi di cui dubito, è che ho lottato, in ogni istante, con tutte le mie forze e usando tutti i trucchi e le strategie che Hermes ed Atena mi hanno concesso perché non si sentisse addosso quello stesso marchio. Quanto meno non il mio. Perché in qualche modo, assurdo forse, quella mano storpia e fuligginosa che tiene il martello ha colpito me invece che l'incudine. O forse... l'incudine ero io. Mi chiedo quale eredità avresti preso tu, se non la mia. Mi chiedo se avresti fatto scudo o se in qualche modo avresti trovato un luogo dove non disturbare lo scorrere. Mi chiedo se saresti stato come acqua o come radici, se saresti stato nutrimento o costruzione, veleno o dinamite.
Nelle mie visioni lei piange, sai? Tengo la sua testa tra le mani, poggiandomela sul petto, carezzandola e consolandola. E riesco a sentire perfettamente quali sono i confini dove si apre il baratro, riesco a vedere oltre, spingermi nell'oscurità e vedere la forza della resilienza, come acciaio temperato con molibdeno al 10%. E vedo quella enorme forma indistinta che è l'ombra della mancanza, la freddezza e il disconoscimento. A lei devo così tanto. Lei è stata la mia luce e il mio confronto reale, il mio sostegno e il mio più grande tradimento. È stata il mio scudo e la mia spada, la mia poesia e il mio dolore. E in tutto questo, nell'eterna ricerca di ciò che non trovo io so che lei ne è stata complice, come Demetra si è assentata proprio il giorno in cui Kore doveva essere rapita. È un lavoro perpetuamente in salita, spingendo un macigno che si ingrossa ad ogni passo, come una palla di neve. Ma poi capisco che l'ho data per scontata, non l'ho vissuta e anche se non mi sono sentito protetto lei ha fatto davvero tutto ciò che era capace di fare e l'unica cosa che, tolto il superfluo mi fa male è che ha manipolato colui che doveva vedere e accettare. Forse se tu l'avessi conosciuto in un limbo intermedio di mai realizzato potresti dirmelo, perché io non lo so: è vera questa percezione che ho in cui la vedo macellarlo per rabbia, per materialità, togliendo a pezzi ciò che non le era funzionale e renderlo ciò che ho conosciuto? Oppure è solo un'illusione dettata dal bisogno di credere che sia così? Ecco perché poi quando ci guardiamo io non vedo me stesso o non voglio vedere un ipotetico me stesso. Ecco perché vorrei essere diverso... ma ogni giorno, dannazione, mi sembra di essere sempre di più simile al diventare ciò che avevo promesso a me stesso di non diventare mai e non mi è concesso avvicinarmi alla pallida e grigia ombra di ciò che rimane della persona che era prima perché ancora e ancora e ancora mi sembra di non arrivare mai da nessuna parte.
Io amo, sì, dunque mi identifico. Perché so che essere ciò che sono, sia perché non ho alternativa ad esserlo, è il modo migliore per trovare il centro del mio labirinto. Non posso cambiare il mondo per adeguarlo a me stesso, e al contrario di come credevo non posso nemmeno cambiare me stesso per adeguarlo al mondo; ma posso capire chi sono e trovare così come dialogare con il resto del mondo per far sì che chi mi ama mi identifichi. Mi dia così un nome, mi sappia dire chi sono.
Come non capiresti forse il dove vivo.. e a pensarci, tu che ne sai dell'identificazione? Tu, materia o non più materia, perduto chissà dove e mai stato reale schiavo della carne o del pensiero. Io so solo che per quanto piccola, insignificante, l'ombra che getti ancora ha saputo essere monolitica e non hai alcuna cazzo di colpa in questo. Se solo potesse essere così, sai quanto sarebbe tutto più facile? Invece no. Non lo è. E io, per ricostruire ogni mio perché, sia quelli visibili che quelli non, devo cimentarmi a diventare un dotto professore laureato in perlocutoria della scatotecnica.
Ma forse mi potresti parlare di cosa sarebbe stato, di cosa avrei visto, di come avrei vissuto. Perché io amo, dunque cresco. L'esperienza che ho vissuto è mia e fa ciò che sono ora. Senza di essa cosa sarei? E sento che il giorno della fine si approssima e io mi chiedo se sarò lì, al suo fianco per chiedergli un perché che non sa nemmeno lui quadrare, o semplicemente sarò lì, al suo fianco, solo perché lo amo e perché è il mio posto, sopra essere il mio dovere, la mia comunione e l'unico modo che conosco per fargli capire che in qualsiasi modo non ci si sia chiariti, qualcosa di me, dentro lui esisterà sempre come qualcosa di lui, dentro me, esisterà sempre. Ho imparato a vivere senza qualcosa, come ho imparato a vivere con ciò che ho. E, forse non sempre, ma ho cercato di fare del mio meglio il più delle volte. Ho raccolto. Ho pianto quando sentivo di averne bisogno. Ho cercato dentro me quell'immagine sbiadita che rappresenta l'uomo che volevo essere e ho cercato di assomigliargli il più possibile. Ma se tu potessi vedere l'oggi con gli occhi del tempo che non hai avuto, che non ti è stato concesso... che forse hai semplicemente rimandato, che cosa vedresti? Come interpreteresti quello che vedi?
E sai, io amo, quindi mi svuoto e mi riempio. So che sono ciò che sono per ciò che mi è stato dato, per ciò che ho preso, per ciò che ho preteso, per ciò che ho ottenuto, per quello che ho rubato, per quello che ho dovuto rendere, per quello che ho barattato, per ciò che ho perduto, disprezzato, implorato di avere, conquistato, distrutto, calpestato, coltivato, addomesticato, per ciò che mi è stato donato e anche per ciò che mi è stato gettato addosso. Tutto ciò mi rende sia libero che schiavo, sia vittima che sicario. E non dimentico di essere sia padre che figlio. Perché è questo che siamo: con due piatti di una bilancia nelle due mani. Di che ci nutriremo se non saremo capaci di seminare e attendere e nutrire? Perché io amo, dunque sono fecondo. E nulla, mai, né uno tsunami, né una glaciazione, né una carestia possono distruggere questa verità fintanto che noi siamo in grado di vederla, accettarla e metterla in moto. E tu, l'hai capito questo? Tu che hai perduto un'occasione, o hai rilanciato appena hai visto quali carte erano in tavola.
È rimasta inchiodata al letto per averci. Denota un grande desiderio. Ma è stato riscatto, rivincita, perseveranza, desiderio, realizzazione di ciò che era previsto costi quel che costi oppure semplicemente è stato amore, puro forte, deliberato? E anche in quell'amore, che cosa c'era, dietro? L'ho conosciuta quell'ombra glaciale che l'ha fetita con coltelli di ghiaccio, privandola a morsi di ciò che non era capace di darle. E me le ricordo quelle lacrime di rabbia di quelle ferite antiche, vecchie, che si sono sollevate solo quando la morte è giunta a prendere ciò che le spettava. Lei pianse? Io no. Non piansi che forse due lacrime, veloci, da solo, ma il colpo non ci fu. Non ci fu il dolore reale, non ci fu la sofferenza della separazione, il cordoglio che il "mai più" porta con sé. Già allora però ricordo che la accompagnai, forse una profezia del mio futuro. Anche se non si sarebbe mai perduta, io la accompagnai. E fui io ad accompagnarla anche in senso fisico, nel suo ultimo viaggio. Avevo pesantezza dentro, ma sentivo che era giusto. E non temevo in realtà, ciò che non sarebbe più stato; forse perché l'amore aveva portato frutto anche attraverso la morte. Plousios, lo chiamavano, perché nel freddo e nella morte, era fertile. E quindi amo, dunque non temo nulla: in qualche modo, l'amore è una salvezza, un'ancora, un porto, una grandezza. Ecco cosa potrei dirti se ti incontrassi: ti direi che nella difficoltà, quando tu già non eri più, anche se ancora legato fisicamente a lei, rifletté e agì con amore nei confronti della vita e di ciò che aveva e non di ciò che non aveva ancora. Non visse nella speranza, nell'illusione, visse nel conforto del potere che l'amore che aveva dentro le stava dando. E che la rendeva più forte della morte che ti aveva strappato via prima di avere possibilità.
Ho avuto tempo per pensarci. E per quanto non posso minimanente sapere come mi potrei comportare in una situazione analoga, lei è stata una guerriera. Ne sono certo. Non si è accasciata nonostante i dolori. Ha mantenuto la calma per non spaventare chi era con lei. Una vera madre. E poi ha lottato con rabbia, o come dice lei... ha picchiato i piedi finché ha ottenuto ciò che voleva. E sono fiero di lei, in ogni giorno della mia vita. Ma sono anche tanto arrabbiato. Sono arrabbiato perché avrei voluto che lei proteggesse anche me come aveva protetto lui da te. E invece no. Io non sono stato protetto completamente. Io non ho avuto le spalle coperte. Io sono arrivato quando tutto era finito e ho vissuto nella non conoscenza, dovendomi scavare una via con le unghie e con i denti, anche di fronte a chi una volta era come me. Io sono stato la bambola che divorò sua madre.
Ma in tutto questo, sai, io amo, dunque vivrò. Perché ho cercato di mettere amore nella mia vita, sbagliando una infinità di volte nel metodo, ma riconoscendo che in ogni modo è così. Forse è anche per questo, che in un modo diverso, ma seguo la legge thelemica: amore è la legge, amore sotto il dominio della volontà
Ecco come mi sei arrivato, insomma. Come neve. Come quella che scende in questi giorni (quanto meno quelli in cui sto scrivendo). È proprio vero che il mondo ti si deposita addosso come neve. Mi ricordo di un giorno come questo. Nevicava in modo terribile. Era tipo dicembre. Arrancando per la città, inseguito da questi fiocchi che volteggiavano come coriandoli sospesi del carnevale di Rio, mi aggiravo io stesso come se fossi nella grande biblioteca di Alessandria. I primi ragazzini, prelevando la neve a manciate dalle macchine in sosta, all'uscita da scuola cominciavano ad appallottolarla e ad aizzarsi in una imprevedibile battaglia. La situazione era destinata a peggiorare, ora dopo ora. Il cielo aveva quel color acciaio e la condensa dell'aria era così spessa e secca che era come se la nebbia si alzasse a strati su cui la neve scendeva come lacrime ghiacciate. Entro pochi giorni la massa nerastra del ghiaccio lurido di smog sarebbe stato l'unico ricordo che ci poteva riportare alla mente quei lieti giorni di gaio inseguirsi e di spensieratezza.
Dentro avevo una voragione dettata dall'incomprensione, un qualcosa che non riuscivo a capire. È la sensazione che proveresti se fossi su un tapirulan che termina sulle soglie di un abisso. Non c'è un altro passo che puoi fare in sicurezza: il prossimo o sarà nel vuoto o sarà nello sconosciuto. Che poi, dopotutto, è pressoché la stessa cosa. Mi sedetti su una panchina, ipnotizzato dai gorghi della neve che, secca, si accumulava ovunque come zucchero a velo. In mente mi continuava a risuonare quella canzone di Jimi Hendrix: Little Wing, che dice: quando sono triste lei viene da me a regalarmi mille sorrisi. "Va tutto bene", dice, "va tutto bene. Prendi da me tutto quello che vuoi. Qualsiasi cosa, qualsiasi cosa". Alla fine era scesa la sera e suonava una sirena lontana. Inchiodato forse dal freddo, dai pensieri, che più di ogni altra cosa sono capaci di crocifiggerti, mi sono alzato con difficoltà da quella panchina. La neve che mi aveva ricoperto a strati come un sudario di gelo mi cadde di dosso mentre con maestosa lentezza mi muovevo, come una cariatide che andava in pezzi, come se fossi rimasto anche io sulla spiaggia a guardare il mare così a lungo che il mio stesso cuore si fosse cristallizzato in un unico blocco di sale. E proprio come tale mi fossi disciolto, nelle immensità dell'essere, riprogrammato e rivisto, rimontato e ridisegnato. Un po' da me stesso, un po' da chi mi incontra e un po' da chi fa finta di non conoscermi o semplicemente si rifiuta di ricordarsi chi sono.
Mi chiedo se mai ti troverò, o se ti ho già trovato e se potremo considerarci a posto. Forse un giorno ci si rivedrà, ci si riconoscerà, ci si sistemerà davanti ad una birra. Magari in un'altra vita.