The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Yule 2013

Yule 2013

Le tue mani e le mie parole tracciano cerchi, linee, volute, assonanze, fragranze di astrazioni risonanti, sfumature atmosferiche, tenui ed impalpabili moti di corde che girano; celesti, blu oltremare, volteggiano e si piegano in fluttuanti costellazioni.

Ataraxia: "Aquarello"

C'è acqua. Acqua ovunque. Acqua da sopra che piove dal soffitto, acqua da sotto, che sale come marea e ci sono i flussi e i reflussi e i flussi e ancora i reflussi. Ho i piedi zuppi a camminare, l'umidità mi entra nelle ossa, penetra fino in fondo, mordendole, fracassandole tra le sue fauci gelide. Scorre come un nero fiume trascinando via tutto quanto, scavando solchi là dove passa, raccogliendo detriti, corpi, oggetti e prendendoli con sé nel suo tetro e bagnato abbraccio. Non so se li rivedrò mai. Quando passa porta via e non rende quasi mai ciò che si prende. Però lascia consapevolezza, come limo.
Un tempo avrei opposto più resistenza. Strenuante. Mi sarei battuto contro le onde e contro gli oceani, spavaldo, erigendomi a difensore del mio stesso onore, della mia cospirata resistenza alla vita. Avrei piantato a terra il bastone, disegnando qualcosa sulla sabbia, come quel giorno lontano, e avrei atteso che il ricciolo di marea giungesse a portarselo via, miscelando la sabbia, cancellando. Ora cerco di capire: ora cerco la scelta sull'istinto, la conoscenza sulla fede, la coscienza sulla consapevolezza, il potere sulla volontà.
Mi ricordo quei giorni in cui ero così rigido dentro me, come se avessi un osso di balena infilato nello sterno, come nel racconto Edgar Allan Poe: "Thou art the man". Non avrei mai accettato nulla che fosse al di fuori del francobollo su cui stavo e sul quale, seduto e steso, navigavo le correnti del mondo, usando le mani per pagaiare, ora da una parte e ora dall'altra, per non rischiare di girare su me stesso, capovolgermi e finire fuori bordo a far banchettare i pesci. Forse è tutto in ordine così, in fin dei conti. Abbiamo tutti bisogno di crescere sapendo cosa ci aspetta, in linea di massima, credendo che, con un certo, dovuto, margine di errore, ci sia possibile pianificare la nostra vita. Ma alcune volte dobbiamo fare i conti con l'imprevisto del noi stessi.
Molto fa differenza su come sappiamo prendere questo imprevisto. Come dice Francesca possiamo vedere dunque, scrostate gioie, usurpate perché tanto crudeli, possiamo respirare mille morti che non contano, immergerci nell'abisso negato e dunque perduto, comprendere le roventi e voraci sfere del buio. E poi ballare davanti ai potenti, agli schiavi, ai barbari e ai faraoni e vedere arrivare la Fame e la Danza e la Giustizia su una giunca sfasciata. E invocare rose, serve, sorelle, dee cadute e rovine, dee della luna appena sfiorata, dee della razza muta e spiergar loro che non ci hanno ancora perduti. Forse vivere nell'illusione di non esprimere per non morire nell'inespressività, perché è lecito aggrapparsi alla coda di un girino quando stai affondando in uno stagno da cui non puoi pensare di riemergere.
Se mi guardo in giro vedo Kali Yuga, nel suo muoversi circolarmente. Non ho conosciuto il tempo in cui i maestri insegnavano agli allievi che l'umanità era divisibile semplicemente tra iniziati e non iniziati, ma se avessi avuto un insegnante di questo tipo non sarei ciò che sono ora. Io credo nell'individuo, nel potenziale delle persone di potersi elevare dalla forma e dalla sostanza, dal carattere e dalla supestizione.
Il Venerabile Maestro Valavan sosteneva che la privazione del desiderio sia la via per l'illuminazione. E la vera liberazione dal desiderio non si trova nell'inseguimento senza fine delle privazioni e della frugalità, bensì nell'accettazione di ciò che ci viene proposto dalla vita, senza cercare e senza rifiutare. Ma io mi chiedo sempre: che significa "illuminazione?" Significa capire ogni cosa? Significa avere chiaro in un attimo tutto il celeste contrarsi e rilasciare? Significa poter udire il respiro dell'universo? Perché quegli stessi maestri che ora sono solo polvere dentro altra polvere e spiriti incarnati in bambini inevitabilmente viziati, che all'epoca predicavano di ignorare gli esseri umani per dedicarsi solamente a quelli che erano da considerare fratelli nella stregoneria, credo ignorassero un punto fondamentale: anche loro un tempo erano esseri umani e non fratelli della stregoneria (come si definiscono) e se nessuno avesse deciso di credere in loro sarebbero rimasti tali. Forse ignoravano questo punto con dovizia di compartecipazione. Lo sapevano, insomma. Ne erano consapevoli. Ma perché camminare tra gli uomini come vili mortali quando puoi avere l'eredità di un dio che tutti ti riconoscono? Chi li avrebbe biasimati, insomma?
Mi domando però se è questa la vera illuminazione: redarguire i propri allievi e ammonirli di guardarsi dall'opportunità di apprendere lezioni da chiunque incontrino ma di scegliere a priori chi si ritiene degno o meno di insegnarci.
Ma il Venerabile Maestro Valavan non si fermava solo a dire che bisognava contrastare il desiderio; lui sosteneva, al contrario di altri, come la ricerca di una fantomatica privazione sia una schiavitù pressoché identica al bisogno di avere il materiale sopra ogni altra aspettativa spirituale. Lui sosteneva che non sono delle rigide e ferree regole ad aiutarci a crescere, bensì lasciare spazio allo spirito di scegliere. Potrebbe sembrare quasi un piccolo scherzo mentale Jedi: non pensare all'elefante rosa. Fissarsi nella mente la convinzione di volersi privare di qualcosa non fa altro che gettare benzina sul fuoco che brucia del desiderio di avere ciò di cui desideriamo fare senza. Perché se vogliamo privarci di qualcosa non sarà di sicuro ciò che non desideriamo. E non posso nemmeno pensare di privarmi del desiderio di qualcosa di cui non so nulla, perché io non desiderio ciò che non conosco. Pertanto se a me manca qualcosa imparo a stare senza. Se però c'è ha senso che io ne tragga un giovamento e una felicità. Privarmene mi potrà anche far sentire illuminato, ma comunque raggiunto questo stato eletto, sarei in ogni caso infelice.
In cosa riponiamo quindi il potere di cui siamo investiti, che ci danno le persone, che costruiamo giorno per giorno? Se l'illuminazione che i maestri ormai trapassati pensavano di aver raggiunto era fatta di privazione, di disconoscenza del potenziale esterno al cerchio interno, di selezione degli insegnamenti, noi dove cavolo stiamo andando?
Un tempo credevo di poter distinguere con una linea netta ciò che era bianco e ciò che era nero, di riuscire a impilare l'egoismo da una parte e l'altruismo dall'altra e decidere da che parte stare, in quali punti valicare la linea. O forse mi sentivo libero di spostare la linea a mia discrezione così da rimanere sempre dal lato che mi faceva sentire meglio con me stesso. E mi ricordo di un giorno, quando ero con un amico e due sconosciuti nel parco di Piazza Vetra a Milano. Era una giornata novembrina, buia. La nebbia ci mordeva il volto di gelo e noi si stava facendo un semplicistico discorso filosofico durante una tranquilla fumata di hashish autunnale e uno di questi due disse: "tutti siamo egoisti, perché pensiamo sempre prima a noi stessi". Mi ricordo come mi scagliai contro quell'affermazione perché non la sentivo mia, perché io cercavo sempre di anteporre i bisogni altrui, l'empatia con le persone, a quelli che ritenevo fossero i miei bisogni. E invece ora mi rendo conto quanto invece stesssi giocando a rimpiattino con me stesso: il mio comportamento era lungi dall'essere altruista, perché in un modo o nell'altro cercavo di soddisfare il mio ego, in modo che potessi apparire a me stesso e agli altri come una persona migliore, in modo che potessi sentirmi in pace con quella parte di me che chiedeva redenzione, ma comunque sperduto in questo stagno di acqua che si alza e si alza e si alza ancora, torbida e scura, fatta di onde e riflussi. E ogni sasso che getto al suo interno provoca onde e turbamento e devo attendere un certo periodo prima che la sabbia del fondale si depositi, perché il gracidio delle rane torni a farsi sentire. E questi sassi che piovono nel mio stagno mi possono parlare di tradimenti, di menzogne, di colpi bassi. E questo perché dimentichiamo quanto la nostra percezione del mondo cambi a seconda di chi abbiamo di fronte, di come ci sentiamo in quel dato momento, di come pensiamo e riteniamo di essere in grado di appredere. Sempre se lo vogliamo, ovviamente. E tutte queste cose a volte sono rivelazioni che ti fanno passare la voglia di alzarti dal letto al mattino; ti fanno pensare ad un eremo o ad un martirio.
Ma siamo onesti: io non credo nella privazione. Il lato dionisiaco dentro me si ribellerebbe a quest'idea orfica scagliandomi addosso tigri inferocite. Ma non credo nemmeno nell'eccesso, perché di contro il lato apollineo dentro di me mi rimbeccherebbe a frustate di alloro sulle mani. Però sento che esistono cose nel mondo che vale la pena provare e che per motivi svariati non tutti possiamo conoscere. E non parlo solo di sensazioni, di emozioni, di nuove vie, di torce di conoscenza, di esplorazione nel campo del piacere, di piatti esotici, sfavillanti nuovi mondi da esplorare nelle espansioni di World of Warcraft, esperienze mistiche, estatiche, medianiche ecc. Mi riferisco ad un concetto basilare di accettazione di tutta quella massa di debolezza che ci rende umani. Ho avuto tempo per pensarci e per suppurarmi decine di soluzioni differenti mentre ero occupato ad esplorare i labirinti dentro me. Non sono riuscito ancora ad isolare un pensiero di cosa sia essere elevati spiritualmente e il mio obbiettivo per le future incarnazioni su questa terra è sviluppare un proto concetto di tutto ciò, ma per il momento sono giunto ad alcuni punti mediamente determinanti nel mio pensiero, e questi si basano sulla funzione di cosa "non credo sia" essere elevati. Perché spesso la ricerca dell'equilibrio ci pone in squilibrio. Insomma, mica poteva essere facile come cucinare la Paella liofilizzata, no?
Credo che essere elevati non sia mostrare l'umiltà come se fosse un punto forte, perché farlo ci renderebbe infine poco umili.
Credo che essere elevati non sia sentirsi tali quando ci confrontiamo con altre persone, perché fondamentalmente questo ci farebbe dimenticare la nostra natura, le nostre radici e da dove, quindi, siamo partiti.
Credo che essere elevati non sia saper dire la cosa giusta e magari anche al momento giusto, perché le persone che si aggirano nel mondo non per forza possono essere pronte per ciò che noi abbiamo da dire, esserne interessate, o volersi sentir dire questa cosa. So di periodi della mia vita in cui volevo davvero sentirmi dire solo cose senza senso perché la mia mente era già troppo impegnata in voli pindarici. E inoltre credo che essere elevati non sia nemmeno tacere quando comunemente è costume non dire nulla, perché non possiamo sapere quando sia davvero necessario farlo, e a volte i silenzi ci appaiono nella vita più terribili e pesanti degli insulti.
Credo che essere elevati non sia conoscere cosa è bene per noi e indovinare cosa lo sia per gli altri, quanto meno non sulla lunga distanza, perché preoccuparsi di cosa sarebbe meglio fare nei tempi dilatati è un modo per non preoccuparsi di sistemare il presente affinché il futuro sia davvero come noi lo immaginiamo, ed inoltre dire agli altri cosa è meglio per loro è facile quasi come affermare che non hai idea di cosa cazzo ci sia veramente negli involtini primavera e nei ravioli al vapore (in questo paragone ovviamente sono eclusi gli eventuali chef cinesi che potrebbero leggere queste righe).
Credo che essere elevati non sia dire sempre ciò che si pensa; dopotutto non è scontato che quando esprimiamo in parole il nostro pensiero, queste non lo impoveriscano e non lo rendano solamente incomprensibile, e comunque condividere un pensiero con qualcuno è anche cercare di capire cosa pensa quella stessa persona. Il pensiero, prima di essere espresso, dovrebbe essere temprato.
Credo che essere elevati non sia nemmeno dire ad altri cosa dovrebbero pensare; la vita è fatta di esperienze che lasciano traccia dentro di noi e nessuno può sapere quanto una ferita possa fare male a qualcun altro perché la percezione del dolore è soggettiva.
Credo che essere elevati non sia neanche pretendere che le persone ci accettino per ciò che siamo, assumendo che sia una giustificazione per ignorarle quando ci fanno notare che il nostro comportamento le fa sentire ferite.
Credo che essere elevati non sia nemmeno calcare la mano quando la gente non vuole capire alcune cose che a noi paiono chiare, perché il cammino nella vita, dalla culla alla tomba, è sempre solitario dentro di noi e alla fine dei giorni tutti quanti affrontiamo il viaggio di andata e ritorno da soli.
Credo che essere elevati non sia cercare la soluzione ai problemi delle persone. Io sento che aiutare gli altri sia un compito supremo, ma andare a riempire i loro buchi per permetter loro di riacquistare l'equilibrio e la loro forza interiore finisce spesso per lasciare buchi dentro me. Dopotutto non puoi pensare di guarire chi è malato se non sei capace di guarire te stesso, su nessun piano.
Credo che essere elevati non sia guardare per vedere, o quanto meno non solo. Alcune cose possono essere capite solo in tempi davvero dilatati e a volte non basta una vita intera. Il qoelet diceva: omnia tempus habent et suis spatiis transeunt universa sub caelo. Siamo noi che diamo tempi alle cose definendoli secondo il nostro sentire, ma per nostra natura fallibili non è di sicuro né facile né probabile che ci sia concesso di capire esattamente ciò che dobbiamo capire nei tempi che noi riteniamo opportuni secondo i nostri limitati punti di vista umani.
Credo che essere elevati non significhi assolutamente rendere le persone dipendenti da noi, anche se involontariamente. Possiamo portare da mangiare a qualcuno che ha fame, mangerà e si sazierà. Ma poi lo stomaco si svuoterà di nuovo e noi saremo responsabili di dovergliene portare ancora. Insegna a qualcuno che ha fame a coltivare e provvederà al proprio sostentamento in modo autonomo, e questo discorso si può applicare a qualsiasi concetto.
Credo che essere elevati non sia credere che la fiducia si riservi nel pretendere che una persona rispetti i nostri spazi, che non ci faccia sentire feriti o che non ci metta di fronte a ciò che non vogliamo affrontare. Forse io sono ancora idealista, ma credo che avere fiducia sia credere che una persona possa dare il meglio di sé a noi e fare di tutto perché questa persona riceva il meglio da noi, creando quindi un nodo di equilibrio e scambio. Tutto il mondo tradisce. Tutto il mondo soffre. Colpevolizzare l'essere umano perché reagisce nei modi che crede giusti nei momenti di tensione è qualcosa che non fanno nemmeno gli dei, proprio perché riconoscono in noi le nostre debolezze. E se noi capiamo il motivo della loro reazione, anche se non ne conosciamo la causa, possiamo aiutarli a mettere ordine. Capire cosa vogliamo sopra ogni cosa: essere soli o avere qualcuno vicino, conoscere noi stessi o far sì che nessuno ci disturbi mentre vegetiamo, ci permette di fare spazio dentro di noi per ciò che riteniamo di aver bisogno.
Credo che essere elevati non sia aspettarsi che le persone si comportino come desideriamo noi. Ogni uomo e ogni donna è una stella, diceva il Grande Maestro Therion. Ognuno di noi ha una propria orbita che si interseca con quella di altre persone senza però portare conflitto. Ogni persona su questo mondo ha bisogno di pensare a se stesso. Questo è egocentrismo, egoismo? Non più che continuare a respirare sapendo che qualcuno sta morendo da qualche parte. Se una persona si sente in grado di aiutare il prossimo è in grado di farlo, soprattutto, quando i suoi bisogni sono soddisfatti. È un principio talmente basilare che credo sia davvero difficile confutare: un guaritore deve avere la pancia piena per poter fare il suo lavoro.
Così tanto spesso però mi trovo a pensare tra me e me, soprattutto quando magari leggo libri poco interessanti (lo ammetto) e quando rifletto sui paradossi come il confine che delimita l'amore dalla prigionia, l'egoismo dall'altruismo, la non accettazione di sé dal vittimismo, il rifiuto di crescere dal bisogno che vengano riconosciute le nostre conquiste. Ogni volta mi rendo conto che siamo fatti di questi paradossi, che i maestri spirituali che sostenevano che fosse necessario inveire e rifiutare di considerare le persone non inerenti alla stregoneria avessero deliberatamente tagliato fuori un forte aspetto concettuale della crescita.
Io credo che affrontare l'allievo che ributta a specchio i fallimenti del maestro sia parte dell'evoluzione stessa legata all'insegnamento. Chi pensa di poter essere in grado di insegnare dovrebbe mettere in conto di sentirsi pronto ad ammettere quando sbaglierà. Questo perché si cresce in parallelo, insegnando come imparando.
In questo mondo che va al contrario, dove la lingua rossa di Kali pende sul suo seno scoperto e dove i suoi occhi spalancati ci osservano sanguigni mentre ghigna con la sua collana di teste umane, la sua gonna di braccia mozzate, il volto striato di sangue e le braccia spalancate ad impugnare le armi con cui affetta il mondo, calpestandolo, abbiamo la peculiarità di dimenticare in fretta le cose importanti ma di ricordare le cose futili. Nonostante ciò io penso sempre che avere un potere sia avere una responsabilità e di conseguenza un dovere morale; ma questo dovere dovrebbe iniziare dal saper mettere ordine dentro noi stessi prima di mettere ordine negli altri, o quanto meno saper mettere ordine in quello che è la nostra volontà.
Ho impiegato anni per avere le idee chiare su chi volevo essere. E spesso, ancora, questo stagno sale e sale e l'acqua bagna qualsiasi cosa. Posso rimproverarmi una lista infinita di errori, scelte del cazzo, colpi di testa, momenti in cui ho agito pensando con i genitali e dovevo pensare con il cuore, momenti in cui ho pensato con il cuore e dovevo pensare con la testa, momenti in cui ho pensato con la testa e dovevo pensare col cuore e momenti in cui ho pensato con il cuore o con la testa e invece era davvero meglio che pensassi con i genitali. Quando però ho scoperto chi volevo essere, ed è stato molto dopo che ho scelto come volevo essere chiamato, ho lavorato per quello fino allo strenuo delle forze. Eh sì, fare la strega è un cazzo di lavoro a tempo pieno. Anche solo sentirsi di appartenere a qualcosa, che sia nostra creazione o di qualcun altro, ma che desideriamo condividere. E dopo questo passo, è un cazzo di lavoro a tempo pieno anche imparare a non aver bisogno di rientrare in alcuna categoria. Del resto ci passiamo tutti. Anche solo prima che una qualsiasi persona che incontriamo ci possa dire in cosa dobbiamo credere o ci ponga domande cui non sappiamo rispondere e ci incalza ponendoci nell'assurda convinzione di dover per forza essere parte di un dogma precostituito. Nel neopaganesimo questo si cela spesso e purtroppo nel velo che eclissa il mistero iniziatico, nel confronto di ciò che è stato fatto con quello che non è stato fatto, e quello che va taciuto, mescolando tutto in modo che una persona debba in ogni istante sentire il proprio cammino messo a confronto con quello di persone che hanno percorso il loro anche decine di anni prima. E ci porta al punto, quasi, da creare una chimera irraggiungibile e invincibile e una cerca per trovarla e sconfiggerla senza però discostarsi mai dal piano metafisico, come quando Gesù, nel Jesus Christ Superstar grida di fronte al Sole nascente: "Sei anche troppo preciso sul dove e sul come ma non altrettanto sul perché".
Nel caso del Gesù narrato nel film, quindi parte del Vangelo di Nicodemo e del Vangelo Armeno dell'Infanzia, la sua prova fu fisica e metafisica assieme. Doveva accettare di morire ucciso e non scantonar la croce, ma salirvi. La differenza che corre è nel fatto che ogni iniziazione, sia che contenga o meno, all'interno del rito, una prova fisica, è in realtà una prova interiore. E come tale può non essere superata. Nel corso del tempo le iniziazioni sono diventate riti all'acqua di rose per molte tradizioni wiccan, ma si rifanno ad un tempo in cui questi riti tribali, spesso tuttora in voga, implicavano situazioni come: essere abbandonati nel bosco e saper tornare da soli, uccidere un animale feroce o un uomo, saltare un fuoco nudi, camminare sui carboni ardenti, rimanere in silenzio e al buio e a digiuno per un periodo di anche due o tre giorni. Ovunque c'è sempre il concetto di affrontare qualcosa che ci fa paura, e saperne uscire vincitori. Ma non perché dimostriamo in qualche modo di essere più forti della paura che proviamo, bensì perché così sappiamo riconoscere la nostra paura e imparare a fare un passo più profondo nella conoscenza di noi stessi.
Inoltre lo scopo dell'iniziazione non dovrebbe (ma non dico che non lo sia) essere parte solamente di un'appartenenza, quindi rientrare in una categoria. Il suo scopo dovrebbe anzi essere quello di indurre una sorta di reazione alchemica che si verifica nelle persone solo se, dentro di loro e sul loro cammino, sono stati fatti i passi necessari per creare il corretto humus. E parlo sia a livello psicologico che metafisico. L'iniziazione dovrebbe essere la scintilla che accende la miccia dell'evoluzione spirituale ad un livello superiore. Può accendersi solo se una persona è matura: se non lo è, può anche affrontare il rito, superare diecimila prove fisiche e spirituali, ma non percepire e ottenere comunque alcun cambiamento dentro di sé, perché il lavoro esterno non è mai uguale al lavoro interno e solo chi affronta l'iniziazione può sapere, a tutti gli effetti, se l'ha affrontata davvero e se l'ha superata. E se non si percepisce e si ottiene alcun cambiamento, a conti fatti la magia non funzionerà, dato che la prima cosa che la magia cambia è proprio questo. L'evoluzione spirituale non è un punto di arrivo, ma un processo metafisico che segue degli schemi che non sono uguali per tutti perché condizionati soprattutto da variabili karmiche.
La metafisica, in un mondo dominato da persone che sono mentalmente relegate al mondo della fisica, ha senso se elaborata per creare nuove realtà, nuovi pensieri, nuovi modi di comprendere, di mettere ordine nel disordine e caos nel precostituito, di essere il punto nero nel bianco e il punto bianco nel nero. Solo in questo modo possiamo far diventare l'istinto una scelta e lasciare che non si sia schiavi né della mente né dell'emozione. Su che base la privazione che predicano molti maestri spirituali può favorire alla crescita e all'evoluzione quando l'assenza di qualcosa ne fa solo accrescere il desiderio? Nello stesso modo in cui accettare un dogma ti mette in condizione di smettere di accrescere la tua cultura, quando invece la forza della fede dovrebbe essere relazionata alla conoscenza e alla saggezza; ma la saggezza si forma sulla base della mediazione e del dubbio e non dell'accettazione delle spiegazioni: Platone ci fa notare come Socrate arrivava alle risposte ponendo dubbi sui concetti più basilari, come fa ad esempio nel Cratilo, quando contesta il pensiero di Ermogene sul fatto che il nome con cui ci si riferisce a qualcosa o qualcuno sia una convenzione basata sull'osservazione, e lo fa per cercare egli stesso una risposta che non conosce. Se una persona si fosse soffermata ad ascoltare il dialogo tra Cratilo ed Ermogene senza ombra di dubbio avrebbe dato ragione al secondo, e andando oltre non sarebbe inusuale, o almeno a me è parso così, arrivare alla convinzione che Socrate stesse impazzendo o che stesse cercando di dimostrare che è il Sole che gira intorno alla Terra. Ma il filo logico, se lasciato snodare, c'è. E si tratta anche dello sviluppo, a più livelli, di una consapevolezza che si trasforma in coscienza stessa, arrivando a capire che io posso affermare che "sono ciò che sono" solo quando ho deciso chi voglio essere. E questo sia in stregoneria, sia in magia, sia quando si decide di abbracciare una qualsiasi fede o imboccare una via spirituale; ossia quando si decide di soddisfare il primo punto fondamentale dell'elevazione: gnôthi sautón. Conosci te stesso. Perché se non conosci te stesso non puoi pensare di manipolare nessuna verità che sia tua e che sia credibile a chiunque pensi di poter convincere del tuo pensiero. E lo sappiamo tutti che sono cazzi in faccia. Lo sanno anche quelli che decidono di non percorrere una via. E forse decidono così proprio perché non vogliono subire l'onere di avere delle difficoltà. Solo in quel momento la volontà esprime la sua somma espressione e si traduce in puro potere. E non potere inteso come "assecondamento ad una manifestazione di espressione", ma capacità stessa di riuscire in ciò che vogliamo fare. Poter fare o non poter fare. Poter amare e poter odiare e poi scegliere cosa sappiamo fare meglio, ma senza dimenticare che nessuno al mondo nasce odiando qualcun altro. L'odio va temprato, va appreso, va affilato, va coltivato. Anche nella sua più perversa purezza è un sentimento che ha bisogno di essere costruito e che non è naturale, non è semplice e necessita di una finezza mentale per trovare la sua realizzazione. Cosa che invece non capita con l'amore, che anche le creature più semplici al mondo possono dimostrare di saper provare. Se un uomo, quindi, ha il potere di modellare il suo pensiero e di direzionarlo verso l'odio, verso la repressione, verso la distruttività e può educare se stesso imparando a provare questi sentimenti, allora può ragionevolmente anche essere educato all'amore, dato che è un sentimento molto più naturale per il cuore umano che il suo opposto, diceva Mandela nella sua autobiografia: "Lungo Cammino verso la Libertà".
Forse, con tutto quello che ancora c'è da imparare, con tante di quelle lezioni che ci perdiamo per strada, come quando mi sveglio al mattino e ho la sensazione di aver irrimediabilmente perduto qualche cosa di dannatamente fondamentale che è rimasto intrappolato tra le alghe nello stagno del sogno da cui sono emerso, pensiamo di poterci permettere davvero di scegliere cosa ci può essere utile e cosa no. Sempre che ci piaccia così, ovviamente. E a me, personalmente, questa cosa fa un po' arricciare il naso, perché ho già abbastanza limiti oggettivi (soldi, tempo, capacità) che mi impediscono di crescere senza bisogno di crearmene degli altri. Ma come sempre... come diceva Pirandello: così è (se vi pare).