The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Editoriale Yule 2015

Yule 2015

Maouwr?

La vita dà sempre molte lezioni difficili da imparare. Man mano che le apprendi, che ti ci scontri, ti viene concessa la possibilità di capire il significato che vi si cela dietro; ma è una possibilità e rimane tale; esattamente come è una possibilità l'apprenderle. Ricordo con una certa precisione la prima volta che mi sono scontrato con la parola "karma". Era il 1996, io avevo diciotto anni e mi trovavo a in un paese della provincia di Milano chiamato Segrate, in un appartamento situato al quarto piano di una casa signorile al 50 di via Rodolfo Morandi, un palazzo che sorgeva a meno di trenta metri dalla fermata dell'autobus interurbano cui conoscevo a memoria il tragitto, lungo circa venti minuti, e gli orari sia estivi che invernali. Ero in un soggiorno ampio e luminoso, arredato con un divano ad angolo e un enorme televisore a tubo catodico, e io stavo ritto dinanzi ad un acquario circa 50x30, illuminato da una spettrale luce verdastra disseminato di alghe, dove un piccolo pesce neon femmina aveva appena ucciso il suo compagno dopo che quest'ultimo aveva mangiato tutti i loro avannotti. La padrona di casa era una donna mediamente attraente, di mezz'età, con principi saldi e una profonda falsità d'animo, per quanto il disprezzo che provava per me non era così in gamba nel dissimularlo, e oltre a questo era anche la madre della mia ragazza dell'epoca. Curva ad osservare quella scena, commentò l'evento con queste esatte parole: "Doveva essere il suo karma".
Nel 1996 internet non era ancora alla portata di tutti, quindi non ebbi modo di cercare subito che intendesse dire. Avevo già letto i primi libri di Magia Cerimoniale che mi avrebbero accompagnato sul cammino su cui mi trovo tuttora, ma quella singola parola per me era ancora un arcano e non mi suonava familiare. In un primo momento ricordo che pensai che lei intendesse dire che il pesce femmina era il karma di quello maschio; pertanto ritenni che quella parola significasse che il karma fosse qualcosa di vicino ad un concetto di nemesi. Poi passarono gli anni e lessi molti libri, parlai con molte persone, conobbi i miei maestri, e quella parola cominciò ad essere sempre più presente nella mia vita, spesso associata a diversi altri lemmi a rendere ancora più articolato e complesso il significato che portava: legame karmico, ciclo karmico, la legge del karma e tutto il resto. Ma sempre e sempre, come ancora tuttora la sento, l'ho percepita associata ad un concetto di punizione, di pagamento o di soddisfazione per dei crimini, per degli errori, per qualcosa in cui siamo mancati.
Quando ho cominciato lo studio che credo mi occuperà tutta la vita che mi manca da vivere per cercare le risposte alla mia vocazione, non mi sono ripromesso un bell'accidenti di niente, come invece sento dire da molti. Ho iniziato perché ne ero affascinato, non perché credevo di poter cambiare il mondo o me stesso. Dire che abbia iniziato perché sentivo di essere chiamato a risollevare l'umanità dalla barbarie civile in cui ci troviamo mi renderebbe non solo uno spudorato bugiardo, ma anche un pessimo investitore del mio tempo, dal momento che dal mio inizio ad oggi nel mondo le cose sono decisamente peggiorate. Tuttavia ho studiato molto in questi vent'anni e la parola karma, che continuava a saltare fuori, mi ha fatto sempre molto riflettere, soprattutto per il fatto che tutto il concetto che noi occidentali vediamo in esso è di base innaturale nella parola stessa.
Già. Perché al contrario di come molti tendono ancora a pensare, Karma non ha mai significato "punizione" o nessuno dei suoi derivati. Siamo noi che vediamo la torsione abnegativa di ciò che siamo in ogni aspetto della natura. Forse questo è dovuto alla sindrome cui siamo affetti e che ci spinge a scrutare tutto attraverso uno vetro oscurato; un lignaggio occidentale da millecinquecento anni a questa parte che ci ha portato a vedere la moralità come un concetto legato a ciò che non si deve fare invece che ciò che sarebbe bene fare, come realmente dovrebbe essere, quindi un suggerimento a migliorare noi stessi invece di sentirci sempre legati al bisogno di sentirci puniti e colpevoli e mancanti di qualcosa. E se vogliamo davvero sentirci così, quanto meno prendiamo coscienza che è un nostro problema, una nostra scelta, non quella di qualche potere superiore.
Karma è una parola sanscrita che significa semplicemente "azione". Niente più che questo. Il suo significato è dannatamente semplice: è identico a quello della terza legge della dinamica, ossia il moto universale che si manifesta in azione e reazione: ad ogni azione corrisponde una reazione pari e contraria. Se qualcuno spinge una pietra col dito, anche il suo dito viene spinto dalla pietra. Se un cavallo tira una pietra legata ad una fune, anche il cavallo è tirato ugualmente verso la pietra: infatti la fune distesa tra le due parti, per lo stesso tentativo di allentarsi, spingerà il cavallo verso la pietra e la pietra verso il cavallo; e di tanto impedirà l’avanzare dell’uno di quanto promuoverà l’avanzare dell’altro. Se un qualche corpo, urtando un altro corpo, in qualche modo avrà mutato con la sua forza il moto dell’altro, a sua volta, a causa della forza contraria, subirà un medesimo mutamento del proprio moto in senso opposto. A queste azioni corrispondono uguali mutamenti, non di velocità, ma di moto. I mutamenti delle velocità, infatti, effettuati allo stesso modo in direzioni contrarie, in quanto i moti sono modificati in uguale misura, sono inversamente proporzionali ai corpi.
Dov'è la punizione in questo? Il cavallo che trascina la pietra legata alla fune, se decide di trainarla, sta pagando con il movimento della pietra? O è la pietra che paga per qualcosa e pertanto il cavallo la trascina? Se esaminiamo questo punto di vista allora il cavallo è l'essere umano e la pietra è la sua vita colpevole. Ma in questa parafrasi che ruolo ha l'entità che lega il cavallo alla pietra e che lo costringe a trascinarla, dal momento che fino a prova contraria nessun equino è in possesso di un pollice opponibile che lo renda in grado di slegarsi da solo? Questa entità è Dio. Dio lega l'uomo ad una corda per trascinare la pietra e gli fa capire che è a causa della sua colpa che è costretto a questo gesto. Non gli dà modo di scegliere se legarsi o meno alla pietra, ma sostiene che l'uomo è sempre in possesso della facoltà di scegliere se e come liberarsene. A patto di pagarne le dovute conseguenze, ovviamente. Ad esempio se l'uomo taglia la corda, allora è dannato per sempre. Se l'uomo sceglie di non trascinare la pietra e cerca un modo per evitare questo destino allora è dannato per sempre. Se rinnega questa colpa e ributta la pietra in faccia a Dio e gli dice: "trascinatela tu se proprio ci tieni", allora è dannato per sempre. L'uomo, per compiacere Dio, dovrebbe trascinare la pietra senza sapere né come né perché, vivendo di colpevolezza e inconsapevolezza, dal primo all'ultimo dei suoi giorni, aspirando al fatto che un giorno quella corda verrà tagliata da colui che l'ha legata, e convincendosi sempre che in questa sua scelta ci sia stato un ottimo equilibrio di proposte. Compito di un presunto "avversario" sarebbe quello di sussurrare all'orecchio dell'uomo: "ti rendi conto che c'è qualcosa che non funziona nelle possibilità di scelta che ti sono state date?"
Come disse Doreen Valiente: "Non posso certo professare di essere una teologa, ma a me sembra che i cristiani che credono in un Satana sovrumano si dovrebbero trovare in un empasse nei riguardi della loro stessa religione. Ad esempio Dio non può impedire al diavolo di compiere le sue marachelle, pertanto questo lo rende non onnipotente; alternativamente Dio è perfettamente in grado di impedire al diavolo di agire se volesse, ma di fatto non vuole. Questo lo rende a tutti gli effetti non benevolente. Fortunatamente sono una strega pagana, pertanto non sono chiamata a risolvere questo problema".
Posto il fatto che karma non significa punizione, posto che ciò che ci capita non ce lo meritiamo perché siamo stati "cattivi", ma che è un semplice riequilibrio di forze universali in continuo movimento e posto anche che tendiamo sempre a vedere il negativo con più facilità del positivo, pensando sempre a ciò in cui siamo mancanti e non ciò in cui siamo forti o valutando solo le nostre qualità senza vedere i nostri difetti, beh, accettare le lezioni della vita e farsele piacere, è tutto un altro paio di maniche.
Nella mia vita ci sono state tante lezioni che ho dovuto imparare, volente o nolente. Questo non significa che mi siano piaciute. All'asilo ho dovuto mangiare un piatto di pasta scotta e fredda fino a quando avevo finito tutto; sono stato male rigurgitando nel piatto. Ciò non significa che questa lezione mi sia piaciuta, che l'abbia trovata giusta e che, di contro, il karma non abbia fatto sì che anche a distanza di trentatré anni da quel giorno se io sento in bocca un pezzo di pasta freddo ho immediatamente un conato di vomito. Eppure la mia maestra dell'epoca riteneva che fosse la via giusta per insegnarmi a non avanzare il cibo.
Una mia cara amica sostiene che gli dei siano talmente superiori a noi, talmente inconoscibili, che quello che ci resta da fare è solo cercare di scrutare nelle loro somme volontà ed eseguire i loro ordini alla lettera. Rimane il fatto che anche se così fosse, forse capita solo a me di non capire sempre con assoluta chiarezza quale dovrebbe essere l'intento di alcune di queste lezioni. Sempre che ci sia. Al di fuori della teologia, quindi, mi ritroverei di nuovo ad aver scambiato un disagio con un altro: ossia mi sentirei ancora una volta il cavallo legato alla pietra, inconsapevole del motivo per cui devo trascinarla sempre e sempre. Se così fosse allora sarei rimasto nel cristianesimo. Che senso avrebbe guadare il fiume se poi mi ritrovo a comportarmi con lo stesso metodo di pensiero che tenevo quando ero sull'altra sponda?
Ho passato tutto il periodo prima di Samhain ad essere incazzato con la Dea. Ed escludendo qualche piccolo malanno di stagione non sono stato fulminato seduta stante. Mio malgrado ho dovuto accettare il compito che ho dovuto portare a termine, in ultimo, come si preannunciava che avrei dovuto fare e come del resto lei stessa, durante il sabba, si è premurata di chiarirmi in un tono che non ammetteva repliche. Forse questa cosa avrebbe dovuto farmi sentire in qualche modo meglio, libero, soddisfatto, riappacificato, appagato, chessò come cazzo e cosa. Ma io sono ancora incazzato con lei. Ovvio, la onoro come sempre, ma non ho accettato il suo disegno con sottomissione. Ho dovuto lottare. Ho dovuto lottare per arrendermi a ciò che dovevo fare. Perché non volevo farlo, perché non era compito mio.
Forse è stata questa una delle lezioni più difficili da apprendere: accettare di dovermi arrendere a forze più grandi di me. Prima o poi credo che un uomo ci debba fare i conti con questa cosa: renderti conto che alla fine alcune lezioni sono davvero come le equazioni di terzo grado che la Lavizzari alle superiori mi dava da risolvere e che immancabilmente mi facevano annodare il cervello peggio di un dibattito a suon di poesie tra Emily Dickinson del periodo bianco e Greg Hill.
A volte, insomma, alcune cose le devi prendere così come sono, come le associazioni degli elementi. Ma questo non mi fa stare meglio. Non quando sento che la mia scelta, la mia decisione, alla fine non era più tale.
Io ho scelto tante volte nella mia vita. Ho scelto di mettere al mondo un figlio a ventisette anni e di crescerlo nel modo in cui credevo giusto. Ho scelto di sposare una donna meravigliosa dopo una rivelazione pari a quella che ha ricevuto Sheldon nell'ultima puntata di Big Bang Theory. Ho scelto di seguire la strada della stregoneria con tutto me stesso. Ho scelto di aprire un gruppo di studio per insegnare ad altri ciò che ho imparato. Ho scelto di avere alcuni amici e non altri. Quando però devi scegliere per la vita di qualcuno, allora non è più una scelta. Allora non è più una decisione. Allora è una forzatura. Allora è come essere il cavallo che trascina la pietra nella metafora del cristianesimo. Allora se io compio una scelta reale, una airesis, divento eretico e come tale finirò al rogo.
Ma se è nel destino dell'uomo scegliere, allora all'uomo dovrebbero essere poste dinanzi scelte che è in suo potere prendere. Che sia pronto o meno a prenderle, questo è un problema di crescita personale. Ma come diceva il Cristo nel Jesus Christ Superstar quando si trova dinanzi a Pilato che gli chiede come può stare così tranquillo quando ha la sua vita tra le mani: "Tu non hai nulla tra le mani. Ogni potere che possiedi proviene da molto più in alto". Platone, nella Repubblica affermava che non esisteva nulla di necessariamente preordinato per l'anima, dal momento che ognuna di esse doveva cambiare secondo la scelta che essa faceva e Aristotele gli faceva eco nell'Etica Nicomachea asserendo che l'uomo è il principio e il padre dei suoi atti, come dei suoi figli e che la scelta è sempre accompagnata dalla ragione e dal pensiero. Hai ragione Platone: gli dei qui non c'entrano nulla. Semplicemente perché l'uomo sceglie se compiere un'azione di un certo tipo o di un altro e deve prendersi la responsabilità della sua scelta senza incolpare qualcun altro, incarnato o divino che sia. Ma questo per quanto riguarda le scelte umane, belle o brutte che siano, difficili o facili da prendere. Le scelte che non ci competono sono quelle in cui devi decidere di porre una firma su un foglio con scritto "eutanasia". Allora l'essere umano non ha più il ruolo che aveva prima. Se devo scegliere io per la vita o la morte di chi amo, allora sto facendo il lavoro di una divinità. Ma io non sono una divinità
Nel grande testo vedico Krisha insegna ad Arjuna i cinque oggetti di studio della Bagavad-Gita: Isvara (Il Signore Supremo), Jiva (l'Anima Individuale), Prakti (La Natura Materiale), Kula (L'Eternità) e Karma (L'Azione), la soggezione di quest'ultimo è insita nelle nostre scelte e potremmo risalire al battito di ali della farfalla dall'altra parte del mondo per spiegare il tornado che ci ha investiti. E tra tutti e cinque il Karma è l'unico anche a non essere eterno ed immutabile, dato che è la rete che imprigiona l'uomo nell'agire temporale, nel ciclo delle nascite e delle morti, dove l'azione comporta tutta una serie di incalcolabili conseguenze e modificazioni sull'intero contesto; in altre parole è la storia.
Quindi come posso essere schiavo di una scelta che non è mio potere prendere? E dal momento in cui in un modo o nell'altro il lavoro sporco devo farlo comunque io, quello che rimane è l'abisso della mia furia, quel rancore acido, asciutto, gelido e incondizionato che non trova sfogo o soddisfazione, ma solo tormento e tormento e ancora tormento, come quando ti rigiri e ti rigiri nel letto per ore, in attesa che l'alba del nuovo giorno giunga a sollevarti dal peso di una notte infinita.
Forse non ho ben chiaro cosa sia il karma. Anzi, è molto probabile che sia così. Forse la sensazione di punizione dovuta dalla culla del paradosso religioso e dottrinale in cui inevitabilmente siamo cresciuti può condurci in solo due direzioni quando abbandoniamo il seno arido da cui abbiamo bevuto quel latte rancido per un periodo più o meno lungo della nostra vita: o il rifiuto totale e globale e il pedissequo annientamento di noi stessi per ricostruirci in modo totalmente diverso e comunque con ben poca speranza di riuscirci e di strapparci di dosso l'inprinting come una maschera, oppure il cambiamento condizionato nel tempo e nel desiderio di far proprio solo ciò che sentiamo di poter accettare e con le tempistiche e le modalità che ci sono congeniali. Io ho scelto la seconda via. Le poche persone che ho avuto modo di conoscere e che affermavano di aver seguito la prima, in realtà, ai miei occhi e a mio giudizio, erano ancora più pedissequi nel vero senso della parola. Per tutelare la strada su cui il nemico che odiavano desiderava camminare, affinché la strada stessa non ne venisse offesa per quanto consideravano quel nemico immorale, se lo portavano in spalla.
Forse, quindi, scegliendo la seconda via, faccio ancora fatica a non vedere come un'ingiustizia alcune cose. Forse mi manca quella visione globale in cui avrei potuto accettare alcune scelte e azioni che mi sono visto costretto a fare e prendere come una sorta di reale "bene superiore" o come quel supremo "volere divino" contro cui nessuno può pensare di opporsi e che è inconoscibile anche nelle cose più piccole e apparentemente inutili. O forse è solo che mi manchi e io non riesco a smettere di tormentarmi per come è andata. E lo so che a te non importava nulla del modo. Me lo hai detto chiaramente. Ma quando si torna al mondo reale, quello denso nel regno di mezzo, alla fine la traslucidità dei colori dell'astrale diventa così lontana che non si può più afferrarla con le mani nemmeno stringendo le dita a pugno. E io alla fine vivo qui in larga misura ed è con questa vita che faccio i conti ogni giorno: fatta di emozioni, sentimenti, unioni e separazioni.
O forse in verità credevo che fosse il tempo. Ancora una volta ho vissuto nell'illusione di averne di più e ora mi sembra di sentirti ancora mentre mi rimproveri. Possibile che io non riesca proprio ad imparare? Che pessimo alunno che sono. Eppure non mi sembra di aver mai preteso di imparare alcune lezioni senza dovermi sporcare le mani almeno un po'. Tuttavia quando ho dovuto lasciarti andare è stato davvero difficile. Qualcuno dice che ci vuole molto coraggio a tener duro fino alla fine, altri che ci vuole coraggio per saper terminare quando è tempo. Ora mi domando: in che punto tra questi due mi dovrei collocare io che mi sento un codardo? A volte mi sembra solo di non aver saputo prendere una decisione e di averla trascinata oltre il limite dell'umanità, altre volte di averti puntato una pistola alla testa e di aver premuto il grilletto. In entrambi i casi quella sensazione di tradimento, in profondità, non si attenua. Come dicono i Klimt: "Time has come and the world just stops without deep sorrow to endure now". Forse era tempo per me di capire e non per lui.
Io non so se è davvero una questione di coraggio, in un senso o in un altro, non so se è una questione legata alla forza di accettare, reagire, combattere o arrendersi. Io so che non dimenticherò mai il tuo sguardo, il disorientamento che vi ho letto, l'incomprensione, la sorpresa dell'inspiegabilità. Come uno stupido, tenendoti le testa tra le mani e guardandoti dritto negli occhi ho cercato la stessa consapevolezza e decisione che avevo visto tempo prima, quando mi dicesti che eri sorpreso del mio attaccamento, della difficoltà che mostravo di sentire per l'inevitabilità. Io che millanto la conoscenza mi lascio intimidire dallo scorrere. Come diceva quel film? "Non è un paradosso? Non stiamo raggiungendo la vetta del paradosso?". Forse è vero che a volte i sogni si avverano e a volte anche lo fanno anche le più profonde paure. Come narrava Sayuri Nitta, sono stato come il legno, radicato al terreno come un albero di sakura, e ho vissuto nel fermo immagine, rifiutando il momento e allontanandolo, nonostante sapessi benissimo che di contro l'inevitabilità è come l'acqua, che si scava la strada attraverso la pietra, e quando è intrappolata, si crea un nuovo varco. Come quella favola avrei dovuto rigettare i pesci nel mare, affinché io potessi capire il senso di vuoto. Ma ho provato rabbia e quindi ho combattuto; ho mantenuto vivo il sogno, l'illusione, inseguendola per mesi, fino a quando un giorno il corvo è giunto a picchiettare alla mia finestra e mi ha destato dalla visione in cui ero immerso, come il visitatore occasionale che interruppe Coleridge nella stesura di Kubla Khan. Sono corso a vedere e lui era là, poggiato su uno dei rami più bassi del prugnolo che cresce davanti a casa e tu eri lì fuori, a guardarlo. Ho visto il vostro scambio di sguardi e ho capito che per te era tutto chiaro, normale, che non provavi disagio, disorientamento. Ti ho chiamato dentro, perché sapevo cosa voleva e tu ti sei voltato a guardarmi, poi sei rientrato in casa. Ma da quel giorno non hai più accettato il mio aiuto.
È così che definiamo il karma, quindi? Inevitabilità? Perché in parte lo è. In parte è Atropo, il destino inevitabile. Per quanto possiamo pensare di sfuggirgli in ultimo possiamo solo rincorrere la nostra coda, come fa Polpetta quando cerca di lavarsela. Possiamo ricostruire, fin nei minimi dettagli, il corso degli eventi che ci ha portato, alla fine, alla ferita che portiamo fieramente. Ma non possiamo interromperlo, evitarlo. Possiamo solo rivederlo e capire che è andata così perché c'è qualcosa che possiamo capire in questo. E io lo so, cazzo. Ma non riesco a smettere di provare rabbia. Forse un giorno riuscirò ad accettare lo schema delle cose, e il ruolo che ho dovuto avere in questo. Forse, mi rendo conto, è un mio limite. Un giorno, quando il corvo verrà a posare il suo sguardo su di me, allora saprò di esistere davvero, di sentirmi vivo proprio nel momento che precederà la morte. Allora forse capirò che tutta la rabbia che ho dentro è solo verso me stesso perché so di essere stato io, in un modo o nell'altro, ad aver messo in moto la concausa di eventi che ha portato alla tua morte. Solo che, come sempre capita con il karma, non possiamo sapere quale sia esattamente il singolo tassello che, se fatto cadere, scatenerà una reazione a catena che porterà in ultimo a ciò che vorremmo evitare con tutti noi stessi di vivere. Vincere, perdere, scommettere ancora. Come può essere frustrante, come se camminassi a piedi nudi per la città, in una notte piovosa e sentissi l'asfalto bagnato sotto le piante dei piedi; senza provare dolore, ma con la paura di ferirmi i piedi, di incontrare sulla mia strada cocci di vetro, chiodi arrugginiti e ricurvi, ferirmi le piante come se fossero tele di un pittore impazzito, sporche di sangue. Ma sapere, dentro, di non poter smettere di camminare.
Dopo tutto quello che abbiamo vissuto assieme, sono sicuro di una cosa: il ponte dell'arcobaleno è stato, per te, solo l'inizio di una nuova avventura.
Ci rivediamo presto, Salsi.