The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Efesto il Rifiutato

 

Efesto il Rifiutato


L'ultimo aspetto del figlio che vedremo, al di fuori del dio esterno agli schemi, è quello di Efesto, il dio storpio e rifiutato dagli stessi genitori. Questo aspetto della divinità è oltremodo singolare in quanto la visione di un dio maligno, ingannevole o in qualche modo caotico risveglia in quasi qualsiasi popolazione un senso di disgusto o di poca adorazione, soprattutto per via del fatto che i culti più importanti venivano svolti in città, dove esisteva una precisa ierarchia, e dove era difficilmente accettabile un contesto privo di leggi. Non per niente sia nella visione greca che in quella sumera, egizia e norrena il dio del caos era visto come disprezzabile. Il rifiuto mostrato ad Efesto però è di tutt'altro tipo: deriva infatti dal suo aspetto.

Il mito greco lo vuole figlio di Era, nato senza l'intervento maschile, e, secondo alcuni, questa fu una risposta della dea al fatto che Zeus avesse partorito Atena per partenogenesi. Questa visione, per quanto accettabile, risulta a mio avviso fallace in quanto impossibile genealogicamente e temporalmente: fu infatti Efesto a spaccare il cranio di Zeus perché la dea potesse uscire vestita di tutto punto. Come poteva quindi Era rimanere gravida di questo dio per gelosia per un torto perpetrato quando questi era già nato? A parte il motivo che spinse Era a rimanere incinta, secondo il mito più diffuso il dio zoppo nacque per partenogenesi, mentre secondo un'altra versione fu uno dei tre o quattro figli che Era diede a Zeus.

La versione della nascita di Efesto più accreditata vede sì una gelosia da parte di Era, ma non dovuta ad Atena, bensì ai continui tradimenti del marito che la spinsero a riservargli lo stesso trattamento: allevare un figlio extramatrimoniale. Se non fosse che lei era la dea patrona della famiglia, pertanto un tradimento le era proibito. Per giungere al suo scopo si rivolse così alla nereide Teti, figlia di Doride e Nereo e in seguito madre del più famoso eroe di tutti i tempi: Achille il Pelide, la quale le suggerì di assumere una misteriosa alga che le avrebbe consentito di generare un figlio senza necessariamente doversi accoppiare con un uomo o un dio. Seguito il consiglio che Teti le diede, Era rimase gravida e dopo nove mesi di gestazione mise al mondo Efesto. Inorridita però dall'aspetto del figlio, e secondo alcuni anche adirata per non essere riuscita da sola a creare qualcosa di bello, lo scagliò giù dal monte Olimpo. Il piccolo cadde rotolando per molti giorni prima di precipitare nell'oceano, nelle cui profondità venne accolto e allevato dalle nereidi Eurinome e Teti, la stessa che favorì la gravidanza della madre. Con le due levatrici visse per nove anni, mostrando loro immediatamente la sua incredibile bravura nelle arti dell'oreficeria e della forgiatura e creando per loro gioielli ed oggetti utili. Infatti proprio in una caverna oceanica, appena nato, Efesto si mise subito al lavoro. La maggioranza delle armi, delle armature e dei gioielli più significativi che punteggiano il mito greco sono opere di questo artigiano incompreso, brutto e zoppo.

Un giorno Era incontrò Teti e le notò addosso una spilla di notevole bellezza, opera dello stesso Efesto. Dopo aver scoperto chi aveva creato un artefatto così splendido riportò suo figlio sull'Olimpo, donandogli una bellissima fucina. Il rapporto con la madre si ricreò e si rinsaldò solo quando lei scoprì che suo figlio, avuto per partenogenesi, nonostante la bruttezza e il carattere introverso, era in grado di produrre bellezza. Quando Era istigò Apollo e Poseidone a spodestare Zeus dal trono di somma divinità olimpica e fu, in seguito, punita in modo esemplare dallo stesso Padre celeste che la inchiodò alla volta del cielo e le appese delle incudini alle caviglie, Efesto cercò di placare l'ira del dio. Prese in questo caso le parti della madre e per questa sciagurata idea fu scagliato nuovamente giù dall'Olimpo da Zeus, e dopo una caduta di vari giorni finì sull'isola di Lemno, fracassandosi entrambe le gambe e rimanendo in fin di vita. Da quel momento, secondo il mito, rimase zoppo e, una volta ottenuto il perdono di Zeus e riconquistato il suo posto sull'Olimpo, fu costretto spostarsi con grucce dorate o, secondo altri miti, grazie all'ausilio di una sedia volante ideata e creata da lui stesso.

Il mito narra di come Efesto non volle credere alla voce secondo la quale non avesse padre e, per ripicca, costruì una sedia bellissima, completamente d'oro, su misura stessa di Era. Gliela diede in dono e la invitò a sedersi. Quando però la dea, sua madre, si accinse a provarla, immediatamente ne rimase imprigionata, caviglie e polsi. Una volta prigioniera Efesto le intimò di rivelargli la verità e di dirgli chi fosse veramente suo padre. Purtroppo però, la dea non poteva che ripetergli che la verità era quella: lui non aveva padre. Convinto però che ancora Era non gli stesse dicendo tutto, il dio della fucina la mantenne prigioniera, rifiutandosi di liberarla nonostante le preghiere di tutti gli Olimpi. L'unico che riuscì a convincerlo fu Dioniso che lo fece ubriacare e che lo portò sull'Olimpo a dorso di un asino. Così lui acconsentì a liberarla a patto di avere in sposa la dea dell'amore, Afrodite, per la quale pagò una dote enorme al padre adottivo: Zeus. La dea dovette sottostare a questa decisione, ma naturalmente non rispettò il talamo matrimoniale, nonostante Efesto le avesse regalato la magica cintura che rendeva irresistibile a chiunque chi la indossasse e che lei, in qualche modo, usava anche a sproposito.

In qualsiasi modo avvenne, il matrimonio con la dea fu per lui forse un'ulteriore umiliazione, dal momento che Afrodite non si tirava indietro da nessun rapporto e seduceva chiunque, dio o mortale, di cui si invaghisse a seconda del capriccio. Quando Efesto, ogni mattina, si alzava dal letto e andava a lavorare in fucina, lei segretamente faceva entrare in casa loro Ares, il dio della guerra, e amoreggiava con lui sul talamo matrimoniale. Un giorno Elio, il Sole, li scoprì a letto e rivelò al marito l'infamia che si stava perpetrando alle sue spalle. Efesto, ferito profondamente ma deciso a portare allo scoperto ciò che gli era stato nascosto, costruì una rete bronzea resistentissima che montò sul baldacchino e, come di consueto, il mattino dopo si recò al lavoro lasciando Afrodite nel letto che dormiva. Non appena il marito fu fuori la dea chiamò immediatamente l'amante e con lui si stese sul talamo. Ma proprio mentre i due si trovavano a letto assieme, completamente nudi, la rete scese di colpo, imprigionandoli e impedendo loro di muoversi. Efesto così apparve e convocò a testimonianza tutti gli dei convinto di esporre i due fedifraghi al pubblico ludibrio e al suo disonore. Le dee per mostrare pudore non si presentarono, ma gli dei furono tutti presenti e Apollo ed Ermes cominciarono a prendere in giro le divinità. A quel punto Efesto chiese a Zeus, il padre adottivo che aveva acconsentito il matrimonio, che gli fosse resa la cospicua dote che aveva pagato per la moglie, ma il padre degli dei era così disgustato all'idea di intromettersi in una faccenda intima che non solo negò di ritornare la dote al tradito Efesto, ma lo rimproverò anche di aver messo a nudo una questione così personale. A quel punto, Poseidone, infiammato nel vedere Afrodite nuda a letto, finse di prendere le parti di Efesto e propose che Ares pagasse l'equivalente della dote richiesta e, se non l'avesse fatto, avrebbe preso lui il suo posto, offrendosi di pagare in sua vece e di sposare la dea. Efesto acconsentì e ovviamente Ares non pagò assolutamente nulla. I due furono liberati e la dea dell'amore si recò a Pafo, dove si immerse nella sacra fonte per recuperare la verginità, mentre il dio della guerra tornò in Tracia. Nonostante tutto, si dice che Efesto non rinunciò all'amore che provava per la moglie e le rimase accanto lo stesso, anche se lei, secondo alcuni miti, rifiutava di avere rapporti sessuali in quanto lo riteneva brutto e storpio.

Efesto era un dio rifiutato quindi anche dalla stessa moglie, ma le sue mani erano d'oro. Anche la stessa Atena, desiderata da titani e giganti ma sempre vergine, con la quale il dio aveva un legame incredibile dal momento che era nata anche grazie a lui che aveva spaccato il cranio di Zeus con un'ascia, gli chiese di forgiarle un'armatura. Accadde durante la guerra di Troia, narrata da Omero nell'Iliade. Per scendere in campo contro Ares non voleva chiedere le armi in prestito al padre che aveva mostrato intenzione di neutralità nel conflitto, così chiese ad Efesto di aiutarla e lui acconsentì chiedendole di essere ripagato "in amore". Poiché la dea non aveva compreso cosa intendesse, quando Atena si recò a prendere l'armatura, Efesto le saltò addosso e cercò di violentarla. Questo comportamento, è da notare, non era assolutamente tipico del dio della fucina; egli infatti era vittima di un raggiro. Poseidone l'aveva informato dell'ingiungere della dea, sottolineando che fosse per giacere con lui. Atena si scostò in tempo ed Efesto le eiaculò sulla coscia, appena sopra il ginocchio e, dopo essersi ripulita disgustata con della lana, la dea gettò via il rotolo che finì vicino ad Atene, fecondando Gea. Per nulla intenzionata ad avere un figlio che Atena non voleva, quando il piccolo nacque lei rifiutò di dargli un'educazione ed Atena lo allevò dandogli il nome di Erittonio. Per evitare che subisse la derisione di Poseidone, che era riuscito, almeno in parte, nell'intento di umiliarla, lo nascose in un cesto e lo affidò ad Aglauro, la figlia di Cecrope, re di Atene. Ma questo lo vedremo nel mito legato alla dea della saggezza.

Il legame tra Atena ed Efesto è narrato da Platone nel Crizia: "Efesto e Atena hanno una natura comune sia in quanto fratello e sorella nati dallo stesso padre sia in quanto pervenuti al medesimo fine per il loro amore della sapienza e dell'arte". Infatti è interessante notare come queste due divinità: Efesto ed Athena Ergane, ossia un epiteto della dea vista come patrona di artigiani ed artisti, in Attica fossero onorati in una celebrazione nota come Calceia. Secondo Proclo, queste due divinità dividevano fra loro la conoscenza di tutte le arti sotto il cielo. Quando lo stesso Omero ci narra della costruzione della rete bronzea con cui Efesto intrappolò i due amanti, ci parla esattamente di "tela di ragno". Lo stesso Servio, nel commento sull'Eneide la descrive come minutissimae catenae. Questo riconduce chiaramente ad Atena patrona della tessitura e al mito di Aracne, che si distinse per la sua bravura nella gara che vinse contro la stessa dea intessendo un arazzo che narrava le vicende degli dei nella sua verità e che, per questo, venne trasformata in un ragno. Dopotutto l'artigianato che Efesto produce, prima di nascere dalle sue mani, ha origine dalla sua testa, dal potere dell'inventiva che trova la manifestazione nella bravura che mostra nel trasformare la creazione del suo ingegno in qualcosa di reale e, per di più, utile.

Anche se comincia come orafo, Efesto in seguito si cimenta in creazioni di ogni tipo, sia utili a se stesso, come la rete che ha imprigionato la moglie e il suo amante, o anche come la sua stessa fucina o il primo prototipo di robot: le ancelle aiutanti meccaniche che svolgevano ogni servizio affidato loro, sia utili agli Olimpi, come le loro abitazioni private o come i tavolini a tre gambe che corrono da soli alle assemblee degli dèi e poi tornano al loro posto o la stessa Pandora, generata dalla creta e data in dono a Prometeo su ordine di un infuriatissimo Zeus. Anche qui vediamo Efesto come "custode del fuoco". Il fuoco rappresenta in questo caso sia l'ingegno che il potere dell'elevazione. Spesso infatti si tende ad associare Efesto a questo elemento. Non per niente il suo corrispettivo romano era noto come Vulcano.

Ma veniamo al mito di Pandora. Ai tempi di cui si parla, l'umanità non conosceva le donne e il Padre degli dei, convinto che gli uomini fossero troppo arroganti, aveva deciso di ucciderli tutti. Prometeo, loro creatore, il cui nome significa "colui che riflette prima", era un titano fratello di Atlante che non era stato bandito insieme agli altri nel Tartaro in quanto durante la Titanomachia aveva preso le parti di Zeus, convincendo il fratello, Epimeteo, il cui nome significa "colui che riflette dopo", a fare lo stesso. Coinvolto dagli umani in una disputa, gli venne chiesto di stabilire quale fosse la giusta spartizione dell'olocausto di un toro. Egli divise così il sacrificio cucendo la pelle del toro in due sacche distinte e riempiendola in modi diversi. Una, quella destinata agli uomini, conteneva la carne, ma ben nascosta sotto lo stomaco, ritenuto il boccone meno prelibato, mentre l'altra fu riempita con le ossa, ma nascoste sotto uno spesso strato di grasso che le rendeva così più appetitose. Poi convocò Zeus e gli chiese di scegliere. Egli, ingannato, prese la sacca contenente le ossa, determinando così la spartizione futura dei sacrifici agli dei: la carne agli uomini e le ossa agli dei. Irato, una volta compreso lo stratagemma, Zeus punì severamente gli uomini rendendoli mortali e portando via il fuoco, così che fossero costretti a mangiare la carne cruda. Prometeo però, che era innamorato dell'umanità, convinse Atena a farsi condurre di nascosto sull'Olimpo, e una volta giuntovi si recò nella fucina di Efesto e rubò il fuoco divino, riportandolo agli uomini. A quel gesto Zeus si infuriò ancora di più e decise di impartire una lezione al titano. Chiese quindi al dio della fucina di costruire una donna di argilla, la prima che l'umanità ebbe mai conosciuto; quando fu pronta ordinò ai quattro Venti di soffiare in essa la vita e a tutte le dee dell'Olimpo di adornarla. Dopodiché la invio in dono ad Epimeteo tramite Ermes. Dato però che il fratello lo aveva ammonito di non accettare mai doni da Zeus, questi la rifiutò gentilmente. Zeus, doppiamente infuriato, fece incatenare Prometeo ad una vetta del Caucaso lasciando che un avvoltoio ogni giorno gli divorasse il fegato, che gli ricresceva nottetempo. Per non indurre nessuno a credere che la sua vendetta così smisurata fosse di origine del tutto personale, Zeus mise in giro la voce che Prometeo si fosse recato sull'Olimpo per incontrarsi segretamente con Atena per un appuntamento amoroso. Epimeteo, costernato per la sorte toccata al fratello, e convinto, in questo modo, di sollevare il peso della colpa dalla sua testa, tornò sui suoi passi e accettò Pandora in sposa. La donna secondo le direttive di Zeus era stata creata stupida, malvagia e pigra quanto bella. Incuriosita da uno vaso che Prometeo aveva lasciato in custodia al fratello lo aprì, riversando al di fuori i mali del mondo che vi erano stati rinchiusi per proteggere l'umanità: vecchiaia, malattia, follia, vizio, passione e fatica. Pandora chiuse immediatamente il contenitore, rendendosi conto dello sciagurato errore, ma ormai, come una fiumana di uccellacci neri, queste pene volarono via ad affliggere l'umanità. Nella fretta di richiudere il vaso la speranza, che per qualche motivo non precisato Prometeo aveva nascosto assieme al resto, restò chiusa al suo interno oppure, come dice Esiodo, uscì anche lei, ma essendo fallace ingannò chiunque con le sue bugie e salvò l'intero genere umano dal commettere un suicidio di massa. Celata (e nemmeno molto) in questa favola si nota distintamente l'attitudine misogina dell'autore, che specifica precisamente come Pandora fosse solo la prima dell'infinita lista di donne identiche a lei: stupide, curiose, disubbidienti, malvagie e pigre. Esiodo, calcando la mano su questi punti, non faceva altro che sottolineare la mentalità greca, come ci fa notare lo stesso Robert Graves: la leggenda di Prometeo, Epimeteo e Pandora narrata da Esiodo non è il mito originale, ma una favola antifemminista, probabilmente inventata da Esiodo stesso, benché si ispiri alla leggenda di Demofoonte e Fillide. Pandora («che tutto dona») era la dea terra Rea, venerata con quell'appellativo ad Atene e in altre città; il pessimista Esiodo fa di lei la responsabile della morte dell'uomo e di tutti i mali che l'affliggono, nonché del frivolo e dissennato comportamento di tutte le mogli. Anche la leggenda della distribuzione della carne del toro non corrisponde ai soliti schemi mitici ed è un aneddoto comico, inventato per giustificare sia la punizione di Prometeo, sia la consuetudine di offrire agli dei soltanto le ossa della coscia e il grasso degli animali sacrificati.

Ma torniamo al fuoco, che Efesto custodiva nella sua fucina. Esso, come dicevamo, è il fuoco dell'ingegno, del progresso e dell'illuminazione. È lo stesso fuoco che ha ispirato personaggi come Johann Adam Weishaupt, Anton von Massenhausen e Max Merz  e che li spinse a fondare, nel 1776, la società segreta degli Illuminati. L'illuminazione è legata all'intelletto, al potere di portare luce nell'oscurità, perché essa è conoscenza e il fuoco che sta nella fucina di Efesto è proprio quello che Prometeo "ruba" per riportarlo all'umanità, affinché, grazie ad esso, possa trovare la via per l'evoluzione. Il fuoco, come ben abbiamo visto nell'articolo ad esso dedicato alla pagina degli elementi, è il simbolo più catartico che possiamo trovare per descrivere proprio il concetto di invenzione e scoperta, dal momento che segna il momento cardine della nascita dell'evoluzione umana. Esso è infatti la più determinante e fondamentale tra le scoperte, passando da quattro fasi distinte che, se non fossero state coronate dal successo, non ci avrebbero mai consentito uno sviluppo tecnologico ed intellettuale pari a quello che abbiamo ora. Queste quattro fasi: scoperta, trasporto, conservazione, e produzione del fuoco non solo potrebbero essere state distanti di secoli l'una dall'altra, ma determinano una vera e propria "cerca", che, come spiegavo nell'articolo sugli elementi: "non è per forza associabile alla sua manifestazione. È accertato che l'uomo l'abbia visto manifestarsi in natura più volte (fulmini che colpivano alberi sono le cause più facili); la scoperta avvenne nel momento in cui, non si sa quando, si ipotizza che il primo uomo abbia sollevato un ramo incendiato o assaggiato la carne di un animale ucciso dal fuoco. In quel momento, se vogliamo, per via intuitiva, l'uomo ha "scoperto" il fuoco, comprendendo che poteva divenire uno strumento nelle sue mani. Si parla di Homo erectus, quindi quasi un milione di anni fa, ma questa "scoperta" potrebbe essere ancora antecedente, in quanto ci è possibile datare solo in base ai ritrovamenti antichissimi che sono stati fatti solo in tempi recentissimi. Abbiamo quindi un principio di "scoperta" e "cerca" sul fuoco, ma soprattutto, non dimentichiamolo... di mantenimento e conservazione del fuoco, il che non è poco. In seguito, nell'eventualità pressoché certa di spegnimento (pioggia, mancata combustione ecc..) la possibilità di ricreare il fuoco, di riprodurre questo evento meraviglioso." È anche per questo che Efesto ed Atena sono così strettamente legati nel loro culto. Essi rappresentano l'ingegno e l'invenzione, il lato intellettuale dell'idea (Atena) e quello manuale della sua realizzazione (Efesto). E nessuno di questi due tipi di intelligenza può trovare la sua ordalia senza l'altro, ma sono necessari entrambi. In una visione immaginaria e mai realizzata del mito greco, Atena ed Efesto dovevano essere consorti; forse non è un caso che la setta segreta degli Illuminati aveva come simbolo la civetta di Atena, dea della saggezza. Questo fuoco, quindi, è sia un fuoco delle mani che un fuoco della testa: il tormento dell'invenzione che deve trovare sfogo e, proprio come è il caso di Efesto, la manifestazione suprema di un dolore immenso, quasi depravato, dovuto ad uno stupro mentale ed emotivo. Infatti in tutti i miti che lo coinvolgono lui non è mai nemmeno vicino all'essere come gli altri dei: ha una consorte e l'ama, è tradito e cerca redenzione, comprensione senza provare vergogna ma mostrando il proprio disonore perché venga riconosciuto e punito; quando cerca un rapporto sessuale che sfocia quasi nella violenza lo fa perché raggirato da Poseidone che sta cercando una vendetta su Atena, con la quale ha una lunga storia di braccio di ferro (probabilmente ancora legata al dominio dell'Attica e alla città stessa di Atene) e, sopra ogni altra cosa, Efesto cerca l'approvazione e l'accettazione di un genitore che non l'ha riconosciuto e che, anzi, lo ha rifiutato, facendolo sentire diverso, tanto fuori quanto dentro.

Come dicevamo, assistito dai ciclopi, il dio della fucina si è distinto per le sue creazioni di incredibile potere, funzionalità e bellezza. Omero ci parla di calici, collane e diademi, ma tra le sue creazioni, oltre a quelle già citate, possiamo enumerare le abitazioni di tutti gli Olimpi, l'arco e le frecce di Apollo e quelle di Eros; le opere artistiche di Lemno, la città dove cadde quando venne scagliato da Zeus e dove sorgeva il centro nevralgico del suo culto; l'elmo e i sandali alati di Ermes; lo scettro e l'Egida, lo scudo di Zeus; il bastone di Agamennone; l'armatura e lo scudo di Achille; i batacchi di bronzo di Eracle; il carro di Elio; la corazza e l'elmo di Enea; la spalla di Pelope; l'intera armatura di Memnone; Talo, il gigante di bronzo che fa la guardia a Creta e, in ultimo, la sua fucina, gli automi suoi aiutanti e il bastone a forma di martello dal manico allungato che usava per muoversi.

Un dio analogo ad Efesto, anche se non rifiutato, è Creidhne, divinità della mitologia irlandese. Egli era figlio di Brigid, la dea del fuoco, dei bardi, della musica e della metallurgia e di Tuireann, un dio analogo al Thor norreno o al gallico Taranis, il cui nome nella radice proto-indoeuropea richiama tórnach e quindi thunder, tuono.

Creidhne era ritenuto l'artigiano dei Tuatha Dé Danann, il mitico popolo delle isole boreali invasori dell'Irlanda, e faceva parte di una triade composta, oltre che da se stesso, dai fratelli Goibniu e Luchtaine e che portava il nome di Tri Dée Dána, termine che significherebbe "I tre della Dea Danu". Durante la guerra contro i Fomori per il dominio dell'Irlanda, come ci viene narrato nel poema Cath Maige Tuired, ossia "La battaglia di Mag Tuired", essi forgiavano le armi che venivano poi usate contro i nemici. Questo canto, forse uno dei più determinanti nella mitologia irlandese, narra di come i Tuatha Dé Danann, il cui nome significa "Tribù della Dea Danu", dove il termine "Tribù" è plurale, giunsero in Irlanda da nord da quelle che erano note come terre boreali. Il motivo per cui giungevano era che ritenevano che quell'isola fosse loro di diritto. Ed in effetti le popolazioni fomoriane, Fir Bolg e Tuatha Dé Danann erano tutte del ceppo nemediano, quindi cugine.

L'invasione era stata prevista da un sogno profetico del re delle tribù stanziali irlandesi fino a quel momento proprietarie legittime delle terre: Eochaid mac Eirc (dove mac sta per "figlio di"), che dominava i Fir Bolg. Non appena sbarcarono sulle coste, i Tuatha Dé Danann, a confermare pienamente l'assolutismo delle motivazioni per cui erano giunti fin lì, diedero immediatamente fuoco alle navi, negando così ogni via di ritorno: o vittoria o morte. Una delegazione capitanata da un diplomatico nominato da re Nuada, il mezzo Fomoro Bres, si incontrò con Sreng dei Fir Bolg e dispose con lui le trattative, che in realtà avevano ben poco margine dal momento che i patti erano la cessione di metà dell'isola oppure la guerra. Gli orgogliosi nobili dei Fir Bolg ovviamente non accettarono e così il conflitto fu dichiarato aperto. Durante una battaglia, il Sreng incontrò a duello Nuada, il primo re dei Tuatha Dé Danann, e nella lotta contro il valoroso avversario perdette un braccio. Dopo alcuni giorni però, la supremazia bellica dei Tuatha Dé Danann si mostrò inarrestabile e le tribù native, durante una tregua, si trovarono di fronte ad una triplice scelta: abbandonare completamente l'isola agli invasori, dividere con loro il dominio dell'Irlanda oppure continuare a combattere. La scelta fu ancora orgogliosa e i Fir Bolg scelsero di continuare a lottare, ma ben presto furono schiacciati e una volta che la Morrigan stessa uccise Eochaid la scelta divenne inevitabile. A Sreng, ora a guida delle tribù dei Fir Bolg, mostrando rispetto per la perseveranza e valore in battaglia della sua gente fu concesso di scegliere una provincia dove potersi insediare e vivere in pace. Questi scelse il Connacht.

Essendo mutilato di un arto, secondo le antiche leggi, re Nuada non poteva più regnare in quanto affinché fosse accettabile un diritto divino il Re Sacro doveva rimanere assolutamente integro. Invece di essere sacrificato, come avveniva in genere con altre popolazioni, cedette il suo posto a Bres, che era di stirpe mista: per metà Fomoro e per metà Tuatha Dé Danann. Si trattava di una scelta prettamente politica, dal momento che era portata ad ottenere l'appoggio dei Fomori, nemici dei Fir Bolg, e poter così mantenere un più saldo controllo dell'isola appena occupata. Secondo il canto, Bres era però un vile. Non solo impose pesanti tributi ai Tuatha Dé Danann, ma favorì i sudditi Fomoriani, rivelandosi non solo un pessimo sovrano, ma anche un cattivo padrone di casa, violando anche le sacre leggi dell'ospitalità. Dopo sette anni fu costretto dal popolo ad abdicare e fuggì dalla sua famiglia da parte di padre, cercando un modo per riprendersi il trono. Al suo posto tornò a regnare Nuada, a cui Creidhne forgiò una mano completamente d'argento e rendendolo così nuovamente integro e in possibilità di regnare.

Il mito qui si snoda poi narrando di come l'eroe Fomoriano Balor guidò le sue truppe contro i Tuatha Dé Danann e come si scontrò con Lugh, il dio dalle molte arti. Ma questo è un passaggio che al momento non ci interessa. Il ruolo di Creidhne, invece, anche se non centrale in questo mito, ci fa capire come possedesse un'arte pressoché ritenuta magica. Interessante da notare è il fatto che appaia come triplice assieme ai due fratelli, Goibniu e Luchtaine, essendo figli di Brigid, la dea bardica della metallurgia che a sua volta è ritenuta essere una dea dalla triplice forma. I figli, in questo caso, avrebbero ereditato le capacità per via matrilineare. Questa similitudine ci richiama ancora Efesto, il cui unico desiderio appariva ancora quello dell'accettazione da parte della figura genitoriale che lo ha disconosciuto. Non appena nato, rifiutato e giudicato della sua bruttezza, ha cercato sempre una via introspettiva di manifestazione dei suoi oscuri sentimenti e bisogni, mostrando le proprie mancanze affettive e il proprio tormento interiore tramutando la materia indistinta in artefatti utili: un modo come un altro per mostrarsi indispensabile e degno. Questo determina chiaramente un bisogno di rimettere ordine nel proprio io interiore, costruendo un tempio là dove sorgono solo macerie e mostrando al resto del mondo come l'utilità del proprio ingegno a volte può essere più funzionale e determinante dell'aspetto fisico nelle proprie relazioni interpersonali e nella scelta catartica della tracciatura del proprio cammino sia interiore che esteriore. Dopotutto anche Afrodite, che era infelice di essere sposata con un dio storpio e brutto a cui preferiva il sanguigno e passionale Ares, non pensò mai due volte all'accettare e fare uso dell'incredibile dono che Efesto le aveva fatto: la cintura che rendeva irresistibile chiunque la indossasse. L'utilità che la dea trovava in questo magico artefatto era sopra ogni immaginazione.

Fu proprio grazie alla sua capacità di trasformazione che Efesto riuscì a "conquistarsi" il ruolo di fabbro divino, senza di fatto spodestare nessun predecessore, ma accogliendo i Ciclopi nella sua fucina come aiutanti. Forse perché anche loro dei figli rifiutati, in questo caso dal padre Urano. Segno questo di quanto questa divinità, per quanto disprezzata e rifiutata, sotto lo strato di sudore e fuliggine e il brutto carattere, per lo più introverso, avesse in realtà un animo oltremodo buono.