The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Eros il Dispensatore

Eros il Dispensatore
 

Eros era il dio greco dell'amore fisico e del desiderio. Al contrario di Afrodite, con la quale spesso si accompagnava, tanto che nel mito romano nel nome di Cupido o Amore ne diviene il figlio, che tende a rappresentare il sentimento eccelso e la forza dell'accoppiamento di tutte le forme viventi, Eros rappresenta il concetto del desiderio che muove una persona verso il suo fine supremo.

L'etimologia del nome deriva semplicemente dalla connotazione greca ἔρως, che sta a significare propriamente l'amore. Quello che per noi uomini attuali è difficile da comprendere nella distinzione che c'è con Afrodite è in realtà un principio filosofico determinante della cultura greca ed è appunto la forza attrattiva universale che comprende, ma che non è ad essa vincolata, anche quella che provano due creature della stessa specie. È più che altro definibile come una forza centripeta che coinvolge gli elementi di diversa natura in un unico abbraccio. Anche e per di più se si parla di elementi in apparente contrasto tra loro. Per intenderci la notte e il giorno, la luce e l'oscurità, la luna e il sole, il caos e l'ordine, il dentro e il fuori, il sopra e il sotto e tutto il resto sono soggette a questa forza primordiale che porta il nome di Eros. Ciò che tiene in perfetto equilibrio di attrazione queste due differenti forze convergenti è Eros. Inoltre, Afrodite coinvolgeva anche un concetto di dea della bellezza e di dea naturale, mentre Eros era colui che risvegliava il desiderio e l'amore, per questo veniva rappresentato alato e con arco e frecce, con cui colpiva le sue vittime, e con una torcia, con cui "accendeva la scintilla dell'amore".

Storicamente la prima apparizione che abbiamo negli scritti greci è ad opera di Omero, nell'Iliade. In questo contesto, come vedremo poi in molti altri, non è nominato o richiamato a muoversi tra i personaggi del poema come un dio trascendente, come capita ad esempio con Atena quando visita la tenda di Achille per fermargli la mano contro Agamennone o a tutti gli altri olimpi quando scendono in battaglia a parteggiare per l'una o l'altra fazione. Egli appare invece come l'immanente desiderio che sfocia tra le persone, in questo caso i due amanti illegittimi causa principale del conflitto: Elena di Sparta e Paride principe di Troia.

"Ma lui del pari vincerò pur io,

ch'io pure al fianco ho qualche Diva. Or via

pace, o cara, e ne sia pegno un amplesso

su queste piume; ché giammai sì forte 

per te le vene non scaldommi Amore, 

quel dì né pur che su veloci antenne

io ti rapìa di Sparta, e tuo consorte

nell'isola Crenea ti giacqui in braccio."


E ancora, nell'Odissea, lo stesso autore parla di come i proci, ardenti di desiderio per Penelope, moglie di Odisseo, in quel momento prigioniero di Calipso, sentirono le ginocchia cedere a causa di Eros.

Nella Teogonia di Esiodo Eros ci appare come un dio primordiale, fautore della forza vitale che muove ogni cosa nella sua orbita, permettendo così anche l'amore tra tutte le divinità, con la consegue nascita e ramificata genealogia:

"E nacque dunque il Càos primissimo; e dopo, la Terra

dall'ampio seno, sede perenne, sicura di tutti 

gli Dei ch'ànno in possesso le cime nevose d'Olimpo,

e, della terra dall'ampie contrade nei bàratri, il buio

Tàrtaro; e Amore, ch'è fra tutti i Celesti il più bello,

che dissipa ogni cura degli uomini tutti e dei Numi,

doma ogni volontà nel seno, ogni accorto consiglio." 


Egli è pertanto un dio nato genericamente dalla terra o generato dal caos, in quanto forza primordiale che permette l'unione di elementi diversi tra loro. Senza Eros gli dei non si sarebbero sentiti attratti l'un l'altro e non avrebbero, di conseguenza, generato tutta la progenie divina, costituita da una discendenza immensa e articolata. Nei miti greci la sua presenza è pertanto sentita quasi sempre come una forza unica ed invincibile.

C'è un solo mito in particolare che lo vede come centrale, ed è narrato da Apuleio nell'Asino D'oro. In questo mito, nella versione latina del dio chiamato Cupido, il dio alato è figlio di Venere e di Giove. Nel racconto, il protagonista Lucio, tramutato in un asino, è prigioniero di briganti, e questi, dopo una scorreria, portano con loro una fanciulla di buona famiglia rapita proprio prima delle sue nozze allo scopo di ottenere un riscatto. Dato che continua a disperarsi, i briganti la affidano alle cure di una vecchia che svolge per loro i servizi di governante e questa, per placarla, le racconta una favola che è, in effetti, una storia dentro la storia e che narra di Psiche, una meravigliosa principessa di un non ben precisato regno. La sua bellezza era talmente abbagliante che si diceva che fosse un'incarnazione della stessa Venere, al punto che non solo la popolazione l'ammirava onorandola con lo stesso rispetto che si porterebbe alla dea, ma smettendo di visitare i santuari a Pafo, Citera e Cnido, lasciandoli all'abbandono senza olocausti perché la voce che Psiche ne fosse la manifestazione era ormai di dominio pubblico.

Venere, osservando lo scorrere degli eventi, si infuriò per la mancanza di rispetto arrecatale e incaricò Eros, che Apuleio nomina come: "quel cattivo soggetto che, infischiandosene della pubblica morale, ha la pessima abitudine di andarsene in giro armato di torce e di frecce, di entrare di notte nelle case della gente e profanare i letti nuziali, insomma di provocare impunemente un sacco di guai, senza far mai nulla di buono", di andare da Psiche per indurla in amore con un relitto umano: "in nome dell'affetto che mi porti, per le dolci ferite delle tue frecce, per le soavi scottature delle tue torce, fa che tua madre abbia piena vendetta, punisci senza pietà questa bellezza insolente. Se tu vuoi puoi davvero farmelo questo piacere, soltanto questo: che la ragazza si innamori pazzamente dell'ultimo degli uomini, di quello che la sfortuna ha particolarmente colpito nella posizione sociale, nel patrimonio, nella stessa salute, caduto così in basso che sulla faccia della terra non se né trovi nessuno come lui disgraziato".

Al contrario delle due sorelle, che trovarono mariti, Psiche, onorata com'era, non aveva nessun pretendente, proprio a causa del suo aspetto pressoché divino. Il padre, quindi, disperato di vederla sempre triste e abbandonata, si rivolse ad un vate di Apollo che gli profetizzò che avrebbe dovuto vestire la figlia a lutto e lasciarla su una scogliera dove un mostruoso drago sarebbe venuto a prenderla. Devastato dal dilemma, si accinse però a seguire ciò che gli dei comandarono e in processione con il paese lasciò la sua ultima nata da sola su una scogliera e si ritirò nel suo palazzo a disperarsi. Durante la notte Zefiro, il vento dell'ovest, la raccolse e la depositò su un giardino fiorito dove la giovane, rilassatasi, si addormentò. Non appena sveglia si inoltrò nella boscaglia e trovò poco più avanti una casa sfarzosissima con colonne d'oro e servitori invisibili che poteva appartenere solamente ad un dio. Le ancelle si presero cura di lei e durante la notte il padrone di casa, sempre celando il suo aspetto, giunse a giacere al suo fianco, intimandole però di non abbandonare mai la casa per nessun motivo, altrimenti sarebbe finita in tremenda disgrazia.

Per quanto Psiche fosse felice di ciò che aveva, si sentiva ancora disperata e abbandonata, soprattutto dopo che sentì le sorelle, giunte a conoscenza della sua misteriosa sorte, piangere e disperarsi proprio sulla scogliera dove era stata abbandonata per il volere di Apollo. Parlò così con il suo sposo invisibile e lo convinse a concederle di parlare con le sorelle, di portarle a visitare la casa e di donarle dei gioielli. Il compagno cedette e acconsentì alle sue suppliche, a patto che non rivelasse niente sul suo conto e che non credesse alle storie che di sicuro avrebbero cercato di insinuarle nella testa.

Psiche accolse quindi le sorelle dentro la sua dimora, ma queste, una volta che videro dove abitava, cominciarono ad essere dominate dalla gelosia e, come le aveva predetto suo marito, presero a chiederle del suo sposo e di chi fosse. Fu così che Psiche, convocando Zefiro, le fece riportare indietro.

Le due sorelle, impazzite di rabbia e di gelosia, decisero di nascondere ciò che avevano visto, in attesa di decidere come prendersi una vendetta, lasciando credere ai genitori che Psiche fosse morta, come ormai era credenza comune. L'amante invisibile, intanto, mise la principessa di nuovo in guardia, ammonendola anche del fatto che portava in grembo loro figlio e che, se lei avesse seguito le sue promesse e avesse rinunciato di parlare di nuovo con le sorelle, sarebbe stato un dio immortale. Ma Psiche, molto ingenuamente, lo convinse a permetterle di parlar di nuovo con le congiunte quando queste tornarono. Le due, chiedendole nuovamente che aspetto avesse il suo sposo, si sentirono rispondere in modo diverso dalla volta precedente e cominciarono a sospettare che, effettivamente, Psiche non conoscesse il volto del suo amato. Fu così che, quando tornarono da lei per una terza volta, le dissero che secondo la profezia annunciata dal vate di Apollo, ella avrebbe dovuto sposare un orrendo mostro e che i contadini dei dintorni lo avevano avvistato allontanarsi da casa sua per immergersi nel fiume e che il suo scopo era quello di divorarla assieme al bambino che portava in grembo. Inoltre la spinsero a svelare l'arcano della misteriosa identità del suo amante e di ucciderlo nel sonno così che potesse essere salva. Psiche, angosciata, si lasciò convincere e nottetempo, mentre il suo amante ormai dormiva, prese una lampada ad olio e un pugnale e illuminò la stanza.

La sua sorpresa fu enorme quando si accorse che a condividere il suo letto c'era il dio dell'amore. Apuleio ci descrive magistralmente la scena in questo modo: "Tuttavia mentre scendevano le prime ombre della sera, trepidante e in gran fretta ella dispose ogni cosa per il delitto. Venne la notte e giunse anche lo sposo che, dopo essersi un po' cimentato in qualche schermaglia amorosa, cadde in un sonno profondo.

Allora a Psiche vennero meno le forze e l'animo; ma a sostenerla, a ridarle vigore fu il suo stesso implacabile destino: andò a prendere la lucerna, afferrò il rasoio e sentì che il coraggio aveva trasformato la sua natura di donna.

Ma non appena il lume rischiarò l'intimità del letto nuziale, agli occhi di lei apparve la più dolce e la più mite di tutte le fiere, Cupido in carne e ossa, il bellissimo iddio, che soavemente dormiva e dinanzi al quale la stessa luce della lampada brillò più viva e la lama del sacrilego rasoio dette un barbaglio di luce.

A quella visione Psiche, impaurita, fuori di sé sbiancata in viso e tremante, sentì le ginocchia piegarsi e fece per nascondere la lama nel proprio petto, e l'avrebbe certamente fatto se l'arma stessa, quasi inorridendo di un così grave misfatto, sfuggendo a quelle mani temerarie, non fosse andata a cadere lontano.

Eppure, benché spossata e priva di sentimento, a contemplare la meraviglia di quel volto divino, ella sentì rianimarsi.

Vide la testa bionda e la bella chioma stillante ambrosia e il candido collo e le rosee guance, i bei riccioli sparsi sul petto e sulle spalle, al cui abbagliante splendore il lume stesso della lucerna impallidiva; sulle spalle dell'alato iddio il candore smagliante delle penne umide di rugiada e benché l'ali fossero immote, le ultime piume, le più leggere e morbide, vibravano irrequiete come percorse da un palpito.

Tutto il resto del corpo era così liscio e lucente, così bello che Venere non poteva davvero pentirsi d'averlo generato. Ai piedi del letto erano l'arco, la faretra e le frecce, le armi benigne di così grande dio."

Avvicinatasi alle frecce, Psiche ne toccò una e si punse il dito facendo stillare il sangue. A quel punto si innamorò perdutamente del dio e, colta da un impeto d'amore, lo coprì di baci. Ma una goccia d'olio della lanterna, piovendo sulla spalla di Cupido, lo svegliò ed egli, accorgendosi che la sua fiducia era stata violata, si involò. Psiche cercò di trattenerlo e questi, per evitare che la sua amata precipitasse, la fece adagiare su un cipresso e lì le raccontò di come sua madre, Venere, gli avesse ordinato di farla innamorare di un essere umano di basso livello ma che, vedendola, lui si fosse "punto con la sua stessa freccia" e si fosse così innamorato di lei.

Psiche si recò così dalle sorelle per cercare vendetta. Giunta a corte dalla prima le disse ciò che era avvenuto, cambiando alcuni particolari e facendole intendere che Cupido, arrabbiato per essere stato scoperto, avesse deciso di abbandonarla per sposare proprio lei. La sorella, colta dallo spasimo di finire tra le braccia del dio dell'amore si precipitò così sulla scogliera scagliandosi nel vuoto, convinta che Zefiro la sostenesse e la portasse nella casa del dio. Ma il vento soffiò invece al contrario e lei si sfracellò al suolo. A quel punto Psiche si recò dall'altra sorella, imbandì la stessa frottola e la indusse a comportarsi allo stresso modo. Fu così che anche lei si gettò nel vuoto convinta che il vento dell'ovest la sostenesse per farla adagiare a terra, ma subì lo stesso meritato destino della sorella.

Cupido, ferito dalla goccia d'olio, nel contempo si era rintanato nel letto di Venere, la quale venne avvertita da un gabbiano di ciò che era avvenuto e, furiosa, tornò al suo capezzale, decisa a punirlo severamente per non aver rispettato i suoi ordini, imprigionandolo nella stanza. Dopodiché decise di trovare la sua amata e di punire anche lei. Uscendo incontrò Cerere e Giunone, che cercarono di placarla senza risultato osservando: "Ma che cosa ha poi fatto di tanto male tuo figlio, che gli togli tutti gli spassi e addirittura vuoi a tutti i costi la rovina della fanciulla che ama? Via, non è mica un delitto se ha fatto l'occhietto a una bella ragazza. In fondo è un maschio, ed è un giovanotto! O ti sei dimenticata quanti anni ha? O forse perché li porta bene credi che sia sempre un ragazzino? E tu che sei sua madre e, per di più, una donna piena di buon senso, che fai ora? Ti metti lì a indagare nelle passioncelle di tuo figlio, ad accusarlo che è un donnaiolo, magari a rimproverargli i suoi amori, a biasimare in un ragazzo così avvenente quelle che sono le tue abitudini, i tuoi piaceri? Nessun dio, nessun uomo potrebbe darti ragione se tu continui a spargere il seme del desiderio tra le genti e poi, a causa tua, pretendi che Amore faccia astinenza e chiudi la scuola dove s'insegnano certi vizietti che piacciono alle donne".

Irritata, Venere si recò da Giove e lo convinse a far sì che Mercurio portasse un bando in tutta la Grecia per una ricompensa a chi trovasse Psiche, la quale, intanto, si aggirava per il mondo alla ricerca di Cupido e, trovatasi nei pressi di un tempio dedicato a Cerere, a lei chiese aiuto. Per quanto la dea delle messi si sentisse piena di compassione, rifiutò di darle asilo. Psiche fece la stessa cosa con il tempio di Giunone e anche da lei venne rifiutata. Le due dee, per quanto temessero le frecce di Cupido, non volevano comunque irretire Venere, pertanto non diedero asilo e protezione a Psiche, la quale decise di accettare il suo destino e di recarsi in un tempio della dea della bellezza, convinta di poter trovare lì il suo amato. Proprio quando fu nei pressi del tempio fu trovata da una delle schiave della dea che, contenta di poter ottenere una ricompensa, la portò al suo cospetto. Fu così che la crudeltà e la vendicatività di Venere venne allo scoperto. La dea prese a denudarla, a torturarla e a frustarla, lasciandola alle sue serve, e poi le diede un terribile compito da portare a termine. Fece portare alcuni sacchi di legumi e cereali diversi, li rovesciò a terra mescolandoli e le ordinò di dividerli di nuovo in diversi mucchi entro il mattino. Nel mentre si recò ad un banchetto.

Costernata dall'immane lavoro che aveva di fronte, Psiche rimase impietrita. Tuttavia attrasse in questo modo la compassione di una formica che, con l'aiuto miracoloso delle sue laboriose compagne, si mise al lavoro e grazie a loro riuscì a compiere la terribile prova di Venere. La dea, tornando dal banchetto e vedendo come la fanciulla se la fosse cavata, sospettò dell'intervento di Cupido, che era confinato nella sua stanza, e le diede un altro compito: doveva andare a recuperare la lana dorata di alcune pecore al pascolo. Avvicinatasi, Psiche venne avvertita dal dio del fiume di aspettare la sera, quando gli animali, estremamente aggressivi, si sarebbero coricati a riposare, potendo così scuotere i cespugli per raccogliere la lana che vi era rimasta impigliata. Superata così questa prova, Venere le impose di andare a prendere, con una fragile ampolla di cristallo, l'acqua di una cascata che precipitava direttamente nel Cocito, uno dei cinque fiumi infernali, e che da esso tornava a scorrere, in un ciclo continuo. A quel punto venne in suo soccorso l'aquila di Giove, che, come Apuleio ci racconta, aveva già interceduto a Cupido quando aveva portato Ganimede fino al padre degli dei perché divenisse coppiere reale. Riportata l'acqua del Cocito a Venere, questa le diede l'ultimo compito: le disse di scendere nell'Averno per chiedere alla regina degli inferi, Proserpina, uno scrigno contenente parte della sua bellezza. Convinta di essere ormai spacciata, Psiche volle gettarsi da una torre, che però le parlò e la soccorse spiegandole esattamente cosa dovesse fare per andare e tornare dall'oscuro regno sotterraneo. Psiche si procurò due focacce di orzo intinte nel miele e vino e due monete. Le monete doveva tenerle in bocca, mentre il cibo tra le mani. Per nessun motivo avrebbe dovuto abbandonarle. Si recò nei pressi di Sparta, dove era possibile trovare un ingresso per l'Averno, e lì seguì la strada fin nelle viscere della terra, dove incontrò un asino zoppo pieno di fascine e un asinaio, zoppo anche lui, che cercò di convincerla ad aiutarlo a raccogliere alcuni rami caduti a terra. Li ignorò e continuò fino ad un fiume dove incontrò Caronte, che pagò con una delle due monete, lasciando che la prendesse da solo dalla sua bocca. Lungo il fiume incontrò un morto affogato che l'implorava di essere issato a bordo e lei, ancora una volta, lo ignorò e procedette, come le fu spiegato. La pietà non era qualcosa che lei poteva concedere in quel luogo. Lungo la strada incontrò tre anziane che filavano su un fuso e che le chiesero aiuto. Ignorò anche loro e procedette. A quel punto si trovò di fronte a Cerbero, il cane tricefalo che sbavava facendo la guardia agli inferi e lo placò con una delle focacce, potendo così accedere al regno di Proserpina. La dea offrì a Psiche un banchetto sontuoso e le chiese di sedersi su bellissimi cuscini ma lei accettò solo un tozzo di pane secco e si sedette a terra umilmente, prima di fare da ambasciatrice per Venere. Proserpina le diede così lo scrigno, come aveva richiesto e le raccomandò di non aprirlo. Psiche, a quel punto riprese la via del ritorno, placò Cerbero con l'altra focaccia d'orzo al miele e vino, pagò Caronte con l'altra moneta e giunse nei pressi dell'uscita verso la superficie. Purtroppo, poco prima di arrivare, fu colta dalla curiosità e, convinta di poter prendere un po' di quella presunta bellezza per sé, per piacere di più a Cupido, spalancò lo scrigno trovandolo completamente vuoto. Al suo interno c'era un sonno eterno che la assopì e che la fece cadere addormentata.

Cupido, ormai guarito, uscì in volo dalla sua stanza e corse dalla sua amata. Rimise il sonno nello scrigno e svegliò così Psiche, invitandola a tornare da sua madre per portare a termine l'incarico affidatole. Nel contempo volò sull'Olimpo da suo padre Giove e gli spiegò ciò che era avvenuto. Giove rispose: "benché tu non mi abbia mai portato quel rispetto che m'è dovuto per unanime consenso di tutti gli dei, ma anzi tu abbia continuamente bersagliato con le tue frecce questo mio cuore che regola le leggi della natura e il moto degli astri, impegolandomi in tresche e avventure d'ogni genere e, quindi, macchiando la mia fama e il mio buon nome con vergognosi adulteri, a dispetto delle leggi, ad onta della stessa legge Giulia e della pubblica morale facendo ignobilmente prendere al mio aspetto sereno ora le forme di un serpente, ora quelle di una fiamma, di una belva, di un uccello, di un animale da stalla, io voglio essere clemente con te, tanto più che sei cresciuto fra le mie braccia. Perciò farò tutto quello che mi chiedi, a un patto però: che tu stia in guardia dai tuoi rivali e che se, per caso, sulla terra, ora, c'è qualche bella figliola, ma veramente coi fiocchi, tu mi ripaghi con quella del favore che ti faccio".

Detto questo Giove convocò tutti gli dei e offrì lui stesso una coppa di Ambrosia a Psiche, elargendole così l'immenso dono dell'immortalità e concedendo ai due di sposarsi. Dall'unione della coppia nacque Edoné, la Volupta romana, che era a tutti gli effetti l'incarnazione stessa del piacere.

Questo mito, molto noto e articolato, rappresenta filosoficamente l'unione di due tipi di amore, quello passionale (Eros) e quello spirituale (Psiche). In questa sostanza il desiderio si fonde con l'anima (il nome stesso di Psiche deriva da ψυχή), solo dopo che la stessa riesce a superare alcune prove iniziatiche, di cui l'ultima, la più importante, è legata alla purificazione a al coraggio di affrontare il proprio aspetto oscuro. Da un punto di vista filosofico, Eros era quindi in possesso di una duplice capacità, o come la definiva Euripide nell'Ifigenia in Aulide, un doppio arco. Con la prima aveva la capacità di indurre l'amore e l'armonia del corpo e delle persone, quindi conduceva l'uomo alla sophia, la somma saggezza, mentre con l'altra generava l'ossessione che portava alla distruzione stessa dell'anima.

Il mito di Eros e Psiche riconosce quindi la difficile ordalia che l'anima deve affrontare per coniugare queste due diverse concezioni. È infatti da notare che la "passione" era una delle afflizioni chiuse da Zeus dentro il vaso consegnato ad Epimeteo e scoperchiato da Pandora che si riversarono sull'umanità. Trovare una coniugazione e un'armonia tra la passionalità e la saggezza è uno dei dilemmi umani più ampi, soprattutto per il fatto che è tendenza di molte dottrine dividere l'uomo in due parti: una spirituale e una corporea. Là dove la passionalità è innamoramento del corpo, la sophia è altresì l'innamoramento della mente. Scegliendo in modo predominante una delle due vie, si preclude la realizzazione nell'altra. Psiche, l'anima eccelsa paragonata ad una dea e mai sfiorata dalla carnalità, trova la sua realizzazione tra le braccia della passione in modo totale (quindi accettando e realizzando completamente quale sia), solo dopo che ha compiuto le quattro prove che Venere le impone. Queste quattro prove, di tipo chiaramente iniziatico, rispecchiano il ciclo dell'anima per trovare se stessa. Per prima, come abbiamo visto, deve distinguere diversi semi di legumi e cereali mescolati assieme, ossia cercare di mettere in ordine i diversi concetti legati all'amore, nel coacervo dei sentimenti e delle emozioni. Distinguere quindi ciò che è legato al sesso e ciò che è legato alla crescita, ciò che è corpo e ciò che è mente. Per superare questa prova giunge l'animale più umile, laborioso e dedito al sacrificio per un fine più alto: ossia la formica. L'insegnamento quindi è la coesione dell'amore in quanto realizzazione di sé e degli altri insieme.

La seconda prova invece la vede avere a che fare con i montoni dal vello dorato, sotto il dominio del sole (lo stesso Apollo che la promise in sposa ad un mostro). Il sole è un concetto chiaramente celeste e pertanto legato all'intelletto e al preordine mentale; non per nulla si parla di apollineo opposto al dionisiaco, dedito al corpo e all'eccesso. A darle consiglio è una canna di fiume, pertanto un dio flessuoso che è inesorabile nel suo scorrere ma che insegna la capacità di adattamento, deviando il proprio corso per aggirare gli ostacoli che non è in grado di smuovere. I montoni, estremamente aggressivi di giorno, sono una sfida al di fuori delle possibilità di Psiche e la canna di fiume la mette in guardia proprio su questo, deve saper attendere e adeguarsi, trovare una via diversa, senza per questo perdere di vista la sua verità e la sua essenza reale.

La terza prova consiste nell'affrontare una cascata generata da un fiume infernale e che ad esso ritorna, in un ciclo continuo e imperterrito. L'aquila, animale sacro a Zeus, è nota per cacciare dall'alto, per avvistare la propria preda grazie alla sua sviluppata capacità visiva e di piombare su di lei in picchiata, togliendo ogni possibilità di scampo. Questo è sempre stato un aspetto tipico del dio celeste, che teneva sotto controllo tutto il mondo mantenendo una visione superiore e celeste dal suo palazzo situato sopra un monte, circondato dalle nuvole. L'acqua infernale che sale e scende è legata al ciclo eterno ed immortale dell'amore e delle emozioni che, per essere "accolte" nella fragile ampolla, devono prima essere comprese. Secondo Jean S. Bolen, nel suo Le Dee dentro la Donna, la parafrasi è quella del cuore stesso, che per essere riempito d'amore deve prima accogliere una visione d'insieme.

L'ultima prova è quella di perseguire uno scopo senza distogliersi. La discesa negli inferi, già di per sé, è un viaggio che punteggia la mitologia greca eroica e che riflette un aspetto preordinato appena precedente al momento ierogamico di "scoperta dell'amore", insita nel matrimonio dell'eroe di ritorno. Nella discesa Psiche non deve lasciare che la pietà e la compassione la inducano a perdersi per strada. Venere, infatti, pone sulla sua strada tre diverse difficoltà da superare, al di fuori dei normali incontri che farebbe con divinità infere da placare: Caronte, Cerbero e Proserpina. Tutte e tre queste difficoltà sono portate ad indurla a liberarsi le mani e fanno leva proprio sul bisogno di aiutare il prossimo annullando la propria ricerca dell'amore: sia lo zoppo con l'asino che le chiede di raccoglierle la fascina, che il morto affogato nello Stige che chiede di essere issato a bordo e sia le tre megere che le chiedono di essere aiutate a filare. In questo contesto Apuleio è chiaro: "la pietà non è per lei in quei luoghi". Tutte queste situazioni portarono infine ad una completezza e all'immortalità di Psiche, che venne accolta sull'Olimpo e che divenne, in questo modo, sposa di Eros, fondendo così le due visioni dell'amore in un'unica incarnazione.

A tutti gli effetti Eros fu uno degli dei che, nel mito, ebbe più natali diversi. Partendo dai miti più antichi, lo si vede come figlio del Caos, generato ma mai partorito. Esiodo, tuttavia, come abbiamo già visto nella sua Teogonia, che in effetti è pressoché il testo di partenza per comprendere il mito creazionista greco, definisce Eros come generato in modo primordiale contemporaneamente a Gea, dato che fu proprio grazie al suo intervento che l'universo trovò il suo ordine e la sua unione.

Secondo invece Saffo, poetessa efesina del sesto secolo a.C., Eros era figlio di Afrodite e di Urano o di Zeus (qualcosa che riprende anche Apuleio nell'Asino D'oro. Secondo Simonide, poeta del quinto/quarto secolo a.C., Eros era figlio di Ares e di Afrodite, così come lo erano anche Armonia, Deimos e Phobos. Fonti decisamente più tarde lo vedono invece figlio di Zefiro e di Iride, e questo si richiamerebbe anche al fatto che il dio del vento dell'ovest compare ancora nel mito di Psiche, venendola a prendere e concedendole di discendere fino alla casa di Cupido.

Tuttavia c'è da citare la versione orfica del mito, che molto spesso, per quanto ci è dato sapere, racchiude una conoscenza e un richiamo decisamente più antico e genuino da parte dei miti e che accentua il concetto teo-cosmogonico che questo dio porta con sé.

Otto Kern, nella raccolta Orphicum fragmenta, narra del mito teogonico orfico e racconta che la Notte, nelle oscure sembianze di un volatile, fu fecondata da un vento di origine misteriosa. Da questa unione depose un uovo d'argento. Al termine della gestazione, quando l'uovo si schiuse, nacque una creatura androgina e dalla duplice natura. Sul lato anteriore era di sesso femminile, mentre in quello posteriore era di sesso maschile. Oltre a questa peculiarità, aveva anche tratti animali quali corna e ali. Il nome di questa creatura era Protogonos Phaeton, che in lingua greca antica significa letteralmente "primogenito luminoso". Questa creatura portava inoltre l'epiteto di Erikepaios, il cui significato, ahimé, non è ben chiaro ma che viene usato per appellarsi sia ad Eros che a Meti, la dea della saggezza. In ultimo era anche noto come Phanes, ossia "colui che si mostra".

Tuttavia questo epiteto rimane oscuro nel suo significato dato che a nessuno era concesso conoscere il suo aspetto fuorché alla Notte. Nella forma di Phanes, accoppiandosi con la madre, creò la luna come gemella della terra e il cielo che pose a custodia del sole.

La Notte, che aveva un aspetto triplice e che si manifestava nella forma di pudica, giustizia suprema e oracolare, risiedeva in una grotta davanti a cui era seduta Adrastea, che suonava il tamburo bronzeo di Rhea per mantenere gli uomini sulla retta via. Al suo interno Phanes divenne il primo re e consegnò lo scettro del potere nelle mani della Notte, in questo mito sia madre che sposa. Questo scettro passò poi ad Urano, a Crono e infine a Zeus che avrebbe dovuto cederlo a Dioniso. Tuttavia questa parte del mito non si realizzò mai perché quell'epoca, benché profetizzata, non ebbe tempo o, se vogliamo, non ha avuto ancora modo di manifestarsi.

Il mito continua parlando di come Zeus, seguendo ciò che Rhea gli aveva suggerito tramite una profezia (nel suo aspetto di Oracolare), mentre il padre Crono dormiva in quella che viene citata come "l'ebbrezza prodotta dal miele", quindi si suppone ubriaco di idromele, lo evirò e si accoppiò con Persefone sotto forma di serpente. Dopodiché legò anche tutto ciò che Phanes aveva creato e lo ingoiò, ivi compreso il suo creatore, divenendo o tornando - il mito nei frammenti parla di un concetto di ritornare - un tutt'uno con l'universo. Inoltre tale mito è rintracciabile anche negli Uccelli di Aristofane: "In principio vi era il Caos e la Notte e il nero Erebo e l'ampio Tartaro, e non vi era la Terra né l'Aere né l'Oceano; negli infiniti recessi di Erebo, generò per primo la Notte dalle nere ali un uovo senza seme, dal quale, con volgere delle stagioni, germogliò Eros desiderato splendente nella schiena per le ali dorate, simili a vortici tempestosi. Congiunto di notte al Caos alato nella vastità del Tartaro, egli covò la nostra stirpe."

Karoly Kerenyi, nel suo Gli dei della Grecia, racconta in questo modo questo mito: "Un'altra versione sulle origini del mondo era stata tramandata dai tempi antichi in alcuni scritti scari conservati dagli adepti del cantore Orfeo; tale versione in ultimo fu mantenuta soltanto da un commediografo o nelle allusioni di alcuni filosofi. Tale versione veniva originariamente narrata piuttosto tra i cacciatori e gli abitanti dei boschi che tra la gente di mare. In principio - diceva la storia - esisteva la Notte; nella nostra lingua essa si chiamava Nyx, una delle più grandi dee anche secondo Omero, una dea davanti alla quale perfino Zeus provava un sacro timore. In questo racconto essa aveva l'aspetto di un uccello dalle ali nere. Fecondata dal vento, la Notte depose il suo uovo d'argento nell'immenso grembo dell'oscurità. Dall'uovo balzò fuori il figlio del vento, un dio con le ali d'oro, chiamato Eros, dio dell'amore; questo è però uno solo - il più simpatico - dei molti nomi attribuiti a questo dio; gli altri che conosciamo hanno un suono erudito, ma anch'essi esprimono soltanto singoli avvenimenti di questo racconto antico.
Col nome Protogonos, si indicava la sua qualità di "primogenito" tra tutti gli dei; con quello di Fanete, si alludeva con gran precisione a ciò che il dio aveva fatto appena nato dell'uovo: egli aveva portato alla luce e a aveva mostrato quanto fino a quel momento era nascosto nell'uovo d'argento, cioè il mondo intero. Sopra, una concavità: il Cielo; sotto: il resto.

Nella nostra lingua antica c'era una parola per lo spazio cavo, la parola chaos, che veramente indicava soltanto che esso era "spalancato". Chaos originariamente non significava affatto confusione, mescolanza; la parola assunse questo significato, oggi abituale, più tardi, quando fu introdotto il principio dei quattro elementi. Così almeno "l'altra cosa", nella parte inferiore dell'uovo, era una mescolanza innaturale. Tale storia aveva anche un'altra versione, secondo la quale nella parte inferiore dell'uovo c'era la Terra, e Cielo e Terra si accoppiavano. In ciò ci manifestava l'azione del dio, di Eros, che li aveva portati alla luce; egli li spinse all'unione. Da codesta unione era nata la coppia di fratelli Oceano e Teti.

Però nel nostro paese, che è bagnato tutt'intorno dal mare, il racconto continuava dicendo che in origine Oceano non doveva trovarsi solo nella parte inferiore dell'uovo, bensì in compagnia di Teti; erano stati essi a subire per primi l'influenza di Eros. Un poema di Orfeo diceva: "Il primo fu Oceano, dal bel corso, che incominciò l'accoppiamento: egli prese in isposa la sorella Teti, nata dalla stessa madre." La madre comune però era quella che aveva deposto l'uovo d'argento: la Notte."

Robert Graves, invece, a riguardo della nascita di Eros racconta: "Gli Orfici dicono invece che la Notte dalle ali nere, una dea che si impone persino al rispetto di Zeus, fu amata dal Vento e depose un uovo d'argento nel grembo della oscurità; e che Eros, chiamato anche Fanete, nacque da quell'uovo e mise in moto l'Universo. Eros fu un ermafrodito dalle ali d'oro, e poiché aveva quattro teste di volta in volta ruggiva come un leone, muggiva come un toro, sibilava come un serpente o belava come un ariete. La Notte, che chiamò Eros col nome di Ericepeo e di Fetonte Protogeno, visse con lui in una grotta e assunse il triplice aspetto di Notte, Ordine e Giustizia. Dinanzi a quella grotta sedeva l'inesorabile madre Rea che battendo le mani su un bronzeo tamburo costringeva gli uomini a prestare attenzione agli oracoli della dea. Fanete creò la terra, il cielo, il sole e la luna; ma la triplice dea imperò sull'Universo, finché il suo scettro passò nelle mani di Urano".

L'ulteriore possibile genealogia di Eros sarebbe da far risalire a Poros e Penìa, rispettivamente il figlio di Meti, l'ingegno e la povertà. In questo mito, narratoci anche nel Simposio di Platone, alla nascita di Afrodite fu tenuta una grande festa dove Poros si ubriacò e Penìa, giunta in loco per mendicare, approfittò del momento per giacere con lui e rimanere gravida. Da quest'unione nacque quindi Eros. Tuttavia c'è da notare che nella stessa opera si fa riferimento ad Eros come ad uno degli dèi più antichi. Questo crea, in effetti, un anacronismo, dato anche che Eros sarebbe nato prima di Afrodite dal momento che, quando la dea sorse dal mare, secondo Esiodo, lui entrò a far parte del suo corteo, accompagnandola sin da subito e mostrando il forte legame che li contraddistingue e che portò, infine, alla loro identificazione di madre e figlio.

Per quanto, quindi, sia densa di significato simbolico, la favola che ritrae Eros e Psiche come figli di un amore proibito da tutto il mondo ma favoriti, altresì, da chiunque, cela il suo significato solo per metà, mostrando quindi l'antichità del protogonos in simbolismi vari. Eros innanzitutto è sempre rappresentato nudo e scalzo. Spesso è visto come un efebo, come ci appare anche nella Primavera di Botticelli e nel classicismo in genere, quindi non ancora abbastanza adulto. Questo simbolismo richiama l'innocenza dell'amore e del desiderio, ma anche la sua schiettezza e la sua purezza priva di veli. Forse è anche per questo che lo si è visto figlio della dea della povertà. Ma, secondo il Simposio di Platone, Eros esprimeva anche l'amore (o il desiderio) omosessuale che poteva nascere tra un giovinetto e un adulto e che rappresentava un costume educativo pubblico della Grecia dell'epoca e che, per tale motivo, era superiore a quello tra due sessi diversi che era pertanto sotto il dominio di Afrodite Urania. Secondo quanto ci giunge dalle parole dello stesso Socrate, il rapporto sessuale tra il fanciullo e il maestro era vera e propria parte dell'istruzione e veniva tenuto in altissima considerazione, praticamente al pari di essere scelti, nel mondo attuale, da un sommo insegnante o per lavorare direttamente a stretto contatto con un luminare. Questo punto di vista, del tutto estraneo al nostro costume moderno, era costruito soprattutto su un concetto di mera inferiorità dell'universo femminile, sia dal punto di vista fisico - considerabile poco più che un vaso per accogliere il seme - che dal punto di vista intellettuale; motivo per cui ai Simposi non era ammessa la presenza di donne.

Per quanto, quindi, nel Simposio di Platone leggiamo come Eros sia figlio di Poros (espediente) e Penìa (povertà), in riferimento al concetto che l'amore riesce a sbocciare anche nelle situazioni più improbabili, è possibile riconoscere nelle parole di Socrate la primigenia e duplicità di questo dio: "Che Amore sia duplice, ci sembra distinzione esatta; ma che esso non alberga solo negli uomini attratti dalle belle creature, ma in tutti gli altri esseri, a loro volta presi per altre forme, negli animali, per esempio, nelle piante e comunque in tutte le creature viventi, io credo di averlo dedotto dalla medicina, la nostra arte e, altresì, come Amore sia grande e meraviglioso iddio, presente ovunque in ogni cosa umana e divina. Comincerò, quindi, a trattar l'argomento da un punto di vista medico, anche in omaggio a questa arte. La natura dei corpi è tale che essi hanno in sé questo duplice Amore; infatti, per il corpo, malattia e salute sono, come tutti sanno, due condizioni diverse e contrarie e, come tali, perciò, non appetiscono e non desiderano mai le stesse cose. In poche parole, altro è il desiderio che prova la parte sana, altro quello che sente la parte malata. (...) E anche le stagioni dell'anno, nella loro successione, son colme di questi due amori, e quando gli elementi contrari di cui parlavo prima, il caldo e il freddo, il secco e l'umido, cadono sotto l'influenza dell'amore benigno che li armonizza e li compone sapientemente, allora le stagioni recano abbondanza e salute agli uomini, agli animali e alle piante e non portano alcun danno. Quando, invece, ha il sopravvento l'altro amore, con tutta la sua violenza, ecco, allora, rovine e distruzione ovunque, ecco la causa di pestilenze e di molti altri simili morbi per gli animali e le piante; e, infatti, il gelo, la grandine, la rubigine derivano dalla violenza e dal disordine con cui si manifestano queste tendenze d'amore."

Spesso, sia nel mito di Psiche che in altri punti, come in Omero (che lo definisce "colui che scioglie le membra") e anche in Esiodo, si parla di Eros alla stregua di un burlone e di un furfante: "Eros, il più bello fra gli immortali, che rompe le membra, e di tutti gli dei e di tutti gli uomini doma nel petto il cuore e il saggio consiglio". Sorvolando sulla misoginia dell'autore della Teogonia, spesso si legge di Eros come di un dio che ha diletto nel portare scompiglio e turbamento. Da un punto di vista intellettuale, in effetti, il desiderio sessuale distoglie dalla ricerca della spiritualità, almeno finché non si trova un giusto equilibrio tra questi due moti opposti (che come abbiamo visto si ricerca nel simbolismo del mito narratoci da Apuleio).

Empedocle, nel Perì physeos, nomina Eros come philìa, contrapponendolo a neikos, che è l'odio o la Discordia, pertanto Eris. Tuttavia Eros è indicato anche con l'appellativo Κύπρις, Kýpris, che sta ad intendere "la natura divina che tutto unisce e genera la vita" e che portò Lucrezio alla composizione del famoso Inno a Venere, presente nel De Rerum Natura, dove la dea è l'onnipotente forza creatrice che pervade la natura e vi anima tutto l'essere che si contrappone al conflitto di Marte, con cui però, come abbiamo già detto nell'articolo dedicato alla dea alchemica, ha l'amore più travolgente e da cui, secondo alcuni, sarebbe nato appunto Eros stesso.

Nel contesto legato all'innamoramento del corpo, Eros è bellissimo e ama la bellezza; per questo segue Afrodite nel suo corteo, onorandola fin dalla sua nascita e per questo cede alla beltà di Psiche, disobbedendo alla madre che la voleva invece innamorata dell'ultimo degli uomini. Ma, in quanto figlio primigenio, viene sempre rappresentato a contatto con la terra, come nella statua del secondo secolo e conservata al Museo Archeologico Nazionale ateniese in cui, del tutto simile ad un cherubino, lo si vede dormire sdraiato su una roccia, con il braccio sotto la testa e con un leone (del tutto simile a quelli che trainano il carro di Rhea) sdraiato al suo fianco. Inoltre ha le ali con cui può alzarsi sopra l'umanità in volo per colpirli da distanza con il proprio arco e accendere la passione con la torcia che, come recitava una frase enigmatica sulle scatole dei fiammiferi: "Come questa anche la fiamma dell'amore che in un istante nasce, vive e muore". Ma le stesse ali e l'arco li vediamo anche in altre divinità legate alla terra e alla natura, come la stessa Artemide. Se vogliamo Eros vive su un confine di mortalità ed immortalità proprio perché può nascere, esistere e morire in lassi di tempo veramente brevi, ma, per antonomasia, nel suo corrispettivo latino il suo nome: Amors è un inno stesso alla negazione della morte, dato che significa "Immortale".

Possiamo azzardare che fu proprio questo principio allegorico che i dotti greci individuarono in lui, composto dalla sua duplicità, che a seconda del punto di vista può risultare fatale o paradisiaca. Per un saggio Eros e anche ciò che lo spinge nella ricerca eterna verso la conoscenza e attraverso tutti gli infiniti labirinti più profondi che conducono al concetto più completo e irraggiungibile di verità, che nessun filosofo potrà mai raggiungere perché, dal momento stesso che è sotto l'influsso di Eros, non troverà mai una conclusione e una soddisfazione, ma un perpetuo e continuo rincorrerne il bisogno. Proprio per il principio basilare secondo cui la conoscenza non si accresce se non condivisa, la ricerca della verità, dell'esperienza e della crescita richiede la relazione e l'interazione sia armonica che disarmonica tra le persone. Anche nel mondo attuale un qualsiasi uomo o una qualsiasi donna che cerca la saggezza non l'apprenderà mai senza aiuto, ma solo grazie ad insegnanti, saggi, genitori, amanti, amici, conoscenti, ma anche nemici, individui spregevoli, bulli, dittatori e persone qualsiasi che ci è possibile incontrare e con cui ci è possibile interagire anche solo esistendo in questo mondo.

Come abbiamo visto, Empedocle parla di Eros da un punto di vista filosofico, ponendolo in dissidio ad Eris a livello universale. Fu proprio seguendo questo pensiero che Sigmund Freud, nella sua opera fondamentale del 1920: Jenseits des Lustprinzips, ossia Al di là del Principio del Piacere formulò una teoria psicanalitica secondo cui Eros va a rappresentare la pulsione per la vita che si contrappone a Thanatos, che rappresenterebbe invece la pulsione verso la distruzione e la morte. Thanatos è a tutti gli effetti la personificazione della morte del mito greco, fratello gemello di Hypnos, il sonno, e dotato di ali nere con cui volava in giro per il mondo. Egli era anche fratello di Ker e di Mopos, rispettivamente la morte violenta e il destino inevitabile e legato con la stessa parentela agli Oneiroi, la stirpe onirica e le stesse Moire, dee della morte, tra cui, come abbiamo visto anche nell'articolo riguardante Afrodite, si annoverava appunto anche questa dea. Questa dualità poneva Thanatos ed Eros in due opposti. Là dove uno portava l'unione e il potere dell'amore, l'altro portava la separazione e il potere della morte.

Al di fuori del mito greco, tuttavia, Freud intessé un paradigma interessante al mero scopo del proprio rivoluzionario metodo psicanalitico "delle parole". Egli ipotizza che le pulsioni dell'essere umano abbiano carattere conservativo, pertanto qualsiasi tipo di evoluzione in cui siamo incorsi nella nostra natura è frutto di quelli che lui chiama "fattori perturbanti e incontrollati". In questo contesto, secondo Freud, Eros sarebbe una pulsione volta alla realizzazione del sé, mentre Thanatos una pulsione di autodistruzione e annullamento. In questo continuo alternarsi di pulsioni, lo scopo ultimo dell'essere umano, considerato come una meta da raggiungere, è comunque quello della morte come fine ultimo che si forma nell'equilibrio della costruzione e distruzione. Queste due forze, una centripeta e una centrifuga, sono in effetti i principi su cui si basa tutta la forza dell'evoluzione umana. Eros non diventa altro, pertanto, che uno dei due poli di coesione, quello che favorisce l'armonia e l'ordine, contrario e paritario a quello che favorisce invece l'entropia e il caos, che, al contrario di Freud, Empedocle aveva identificato appunto in Eris, la Discordia.

È infatti interessante notare che nel mito Eros viene visto per lo più come un paredro di Afrodite che infiamma i cuori e accende la passione, creando spesso più problemi di quelli che risolve. Basta appunto vedere quello che gli dice Giove quando si rivolge al padre per consiglio nel mito narratoci da Apuleio e che abbiamo visto nel dettaglio. Questo equilibrio tra Eros ed Eris, vicini anche nel nome quanto opposti negli intenti (ma comunque vicini), è paragonabile al principio cinese dello Yin e lo Yang; là dove il punto nero nel bianco è l'inevitabile dissidio che si crea nelle passioni generate in seno ad un rapporto già nato che sfociano nel conflitto tanto voluto da Eris. Paride ed Elena, per esempio, paiono amarsi di amore sincero, ma per concausa di questo (e intento della dea della discordia stessa, che lanciò la mela al matrimonio di Peleo e Teti) scoppiò una guerra sanguinosa durata dieci anni che portò alla morte di numerosi eroi, proprio perché il loro amore era sbocciato in situazioni che non ne permettevano il compimento e la realizzazione: Elena infatti era sposa di Menelao, re di Lacedemone. E là dove il punto bianco nel nero è la necessità di unione nel separatismo. È per un moto di fedeltà e di mantenimento di una promessa fatta per amore della stessa Elena che gli eroi achei come Agamennone, fratello di Menelao, Odisseo e molti altri presero parte alla campagna di Ilio. Così come, dall'altra parte, la riunione di una famiglia separata alla nascita del principe Paride si ritrova ad avere un motivo per rimanere di nuovo unita: quello di difendere i confini di una città, così come l'amore di due persone.

Ho chiamato Eros con l'epiteto di Dispensatore perché è colui che permette l'unione delle persone, delle genti, che ne favorisce la crescita attraverso l'amore del corpo e quello dell'anima, attraverso la collaborazione e la fusione delle culture, risvegliando le emozioni e i sentimenti che si celano nella profondità della nostra anima. Eros ci insegna l'unità attraverso le differenze e l'attrazione degli opposti. Tuttavia, devo riconoscere che, così come l'oscurità sta alla luce, il rapporto tra Eris ed Eros è duale: nessuno dei due può esistere senza l'altro. L'amore nasce nel conflitto per portare pace e armonia e in esso trova la sua realizzazione, così come il conflitto si genera dall'amore come sua naturale manifestazione.