The Reef & The Craft

Ero una piccola creatura nel cuore 
Prima di incontrarti, 
Niente entrava e usciva facilmente da me; 
Eppure quando hai pronunciato il mio nome 
Sono stata liberata, come il mondo. 
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti. 
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri. 
Stupidamente sono scappata da te; 
Ho cercato in ogni angolo un riparo. 
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito. 
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto. 
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto. 
Restituendomi 
Al tuo abbraccio. 

Mary-Elizabeth Bowen

Kore la Fanciulla

Kore la Fanciulla
 

Nel mito greco non c'è altra divinità che può incarnare il ruolo di Fanciulla in modo migliore di Kore. Il suo stesso nome significa per l'appunto "giovinetta", derivando dal greco Κόρη e suona più come un epiteto che come un nome reale. Ella era figlia di Zeus e di Demetra, la dea del raccolto e dei cereali, ed Omero si riferisce a lei come "dalle belle caviglie". Secondo alcuni miti orfici sarebbe anche sorella di Iacco e di una divinità che non potrebbe essere nominata ma a cui si fa riferimento nei Misteri Eleusini.
La nascita di Kore è argomento peculiare perché secondo alcuni sarebbe nata in modo analogo ad Atena e avrebbe in questo modo un'associazione con la dea vergine; su un vaso a figure nere conservato alla Bibliothèque Nationale a Parigi la troviamo infatti rappresentata mentre balza fuori dalla testa della Madre Terra aperta da due uomini a colpi d'ascia. Questo chiaro riferimento alla nascita di Atena lega queste due divinità in modo indissolubile. Come ci fa notare Robert Graves ne I Miti Greci, secondo altre fonti Zeus, padre di Kore, l'avrebbe avuta invece dalla ninfa del fiume infero: Stige.
I miti che interessano questa divinità sono pochi, quanto meno prima della sua trasformazione. Il padre, Zeus, fu avvampato di desiderio per lei e la madre, Demetra, la nascose in una grotta comprendendo ciò che sarebbe avvenuto e cercando di tutelare la figlia. Ma Zeus ebbe modo di prenderla con la forza sotto forma di serpente e, secondo alcune versioni del mito, lei rimase in questo modo gravida di Dioniso.
Il grosso del bagaglio mitologico che riguarda però questa dea, come dicevamo, è legato alla sua trasformazione in seguito al rapimento e le nozze forzate da parte dello zio Ade. Questo mito, narrato da moltissimi autori in modo più o meno diverso, si incentra in modo peculiare sulle vicende della madre Demetra e di come, dopo aver saputo della sparizione della figlia, si gettò nello sconforto più profondo e si mise a girovagare il mondo per cercarla. Il ruolo di Kore, in questo ambito, rimane quindi secondario. Qualsiasi sia l'autore che tratta questo mito, dipinge comunque questa dea come una fanciulla innocente e anche abbastanza ingenua che, su ordine della madre, durante una sua assenza per recarsi in Frigia, non esce di casa. Purtroppo il destino volle che proprio in quel periodo Ade, il dio degli inferi, abbandonò il suo freddo regno per recarsi sull'Olimpo a consultare il fratello Zeus su una questione di grande importanza: desiderava avere una moglie come tutti gli altri. Il Padre celeste, dopo un'attenta analisi, si rese immediatamente conto di quali poche vie di uscita potesse avere in questa situazione, in quanto da una parte non era nella posizione di poter negare ad Ade il diritto di avere una moglie, ma dall'altra non c'erano divinità che avrebbero mai accettato di sposarlo per passare il proprio tempo negli inferi; considerò quindi che l'unica dea che non aveva preteso la verginità e che fosse in età da marito era la figlia Kore. Ma sapeva anche che non solo Demetra non avrebbe mai acconsentito alle nozze, ma non l'avrebbe mai perdonato se avesse accondisceso ad un marito come Ade, relegando sua figlia lontana da lei. Pertanto, per cercare di uscire da questa pungente situazione, decise di non prendere una decisione e asserì che nella sua posizione non poteva né avvallare né negare la richiesta fattagli. Il dio degli inferi, comprendendo al volo cosa il fratello intendesse, interpretò liberamente questo come un diritto di prendersi la moglie che desiderava senza chiederla e tornò, soddisfatto, nel suo regno.
Nel frattempo Zeus favorì lo scorrere degli eventi, dato che sapeva che Kore non aveva possibilità di uscire di casa ma deciso ad approfittare dell'assenza di Demetra. Chiamò pertanto a sé Afrodite e la mise a parte dei suoi piani dicendole di prendere Atena ed Artemide e assieme con le ninfe oceanine che facevano da "scorta" a Kore, di condurre la figlioletta a raccogliere fiori sul monte Enna. Le tre dee si recarono quindi dalla giovane e la condussero con loro come ordinato.
Kore stava quindi raccogliendo fiori, mettendoli nella veste tenuta ad incavo, quando venne attratta da un narciso (o secondo altri da un papavero) di particolare bellezza. Cercando di estrarlo dalla terra vide dinanzi a sé il terreno spaccarsi ed esplodere all'esterno e dalla voragine creatasi, emergerne una quadriga di cavalli neri che sputavano fiamme dalle narici guidata dall'oscuro signore Ade. Immediatamente il dio la afferrò e la trascinò via con sé. L'evento scatenò un fuggi fuggi generale tra le oceanine, che si diedero alla macchia urlando; tutte tranne Ciane, che si frappose al ratto facendo infuriare il dio degli inferi che con un colpo del suo bastone biforcuto la trasformò in una fonte d'acqua. Ma, secondo Claudiano, nella sua opera Il Ratto di Proserpina anche le due dee Atena e Artemide si opposero al crimine, dapprima inconsapevoli del fatto che dietro tutto ciò ci fosse Zeus. Atena estrasse l'egida con la testa della gorgone e fermò i cavalli mentre Artemide incoccò una freccia. Entrambe cercarono di impedire il rapimento combattendo, ma la saetta di Zeus piovve sulla lancia scagliata e, comprendendo che il volere di loro padre era quello di lasciare che tutto ciò si svolgesse senza interferenze, furono costrette a mettersi da parte.
Kore venne quindi strappata al regno di superficie e portata nel regno infero, dove rimase piangente per un tempo indefinito, astenendosi dal toccare cibo, mentre al di sopra la madre Demetra si disperava nella sua ricerca. Ade, in qualche modo cercò di consolarla sostenendo che non l'avrebbe resa infelice e che comunque, nell'Averno, lei sarebbe stata regina, ma Kore era una fanciulla solare e l'unica cosa che desiderava era tornare a riabbracciare la madre.
Qui il mito, indipendentemente dall'autore, rimane prettamente incentrato sulla ricerca della figlia da parte di Demetra che nel suo girovagare giunse ad Eleusi dove, mentre si trovava alla corte di Celeo e Metanira, occupandosi del piccolo Demofoonte come nutrice, scoprì per voce di Trittolemo, uno dei figli del re, che suo fratello, un porcaro di nome Eumolpo, aveva assistito al rapimento. Secondo il racconto di Eumolpo, nel mezzo della sua mandria la terra si era spalancata ingoiando i maiali ancora vivi, mentre dalla voragine apertasi era emerso un uomo dalla barba nera alla guida di una quadriga di cavalli che aveva trascinato via con la forza una fanciulla urlante. A questo punto Demetra, assieme ad Ecate, che aveva udito come lei le urla della giovane, si recò da Elio, il dio Sole, per avere una conferma di ciò che per forza di cose aveva visto, e questi le confermò che il rapitore era Ade ma che l'unico vero responsabile era Zeus. Infuriata, Demetra si precipitò sull'Olimpo e chiese al fratello la restituzione della figlia, ma questi gliela negò, asserendo che non si vergognava di avere un genero come Ade, che non era sovrano del regno celeste al posto suo solo per sorte.
Comprendendo che con le parole e con le buone non avrebbe ottenuto nulla, Demetra si chiuse nel tempio di cui aveva ordinato la costruzione ad Eleusi e, disperata, maledisse la terra non facendo più crescere nulla e lasciando che le persone morissero di fame. Questo comportò l'assenza di sacrifici per gli dei e di conseguenza il lento affievolirsi del loro potere e della loro immortalità.
Quello che accadde in superficie, bene o male, è raccontato in modo uguale tra tutti gli autori che hanno trattato questo mito. La sostanzialità è infatti ciò che accadde negli inferi. Quando mi capitò di parlarne con alcune persone anni fa, quando ebbi la fortunata occasione di sedere per un caffè con alcuni studiosi, mi sono sentito domandare con un certo disappunto come mai un mito che porta il nome di Persefone nel titolo si incentrasse invece sulla madre Demetra. Questa domanda non mi apparve stupida né all'epoca né ora, anche se sono passati anni e la mia conoscenza per ovvie ragioni si è accresciuta; in parallelo la mia risposta non sarebbe ora molto diversa da allora, e cioè che questo mito parla di Demetra perché ciò che avviene negli inferi è misterico, così come il mito stesso. Kore rappresenta il ruolo di un'inizianda che affronta un rito di passaggio per accrescere il proprio potere, per dimostrare di essere pronta a crescere e per trasformare quindi se stessa in qualcun altro: Persefone, la Regina degli Inferi.
Pertanto cosa accadde negli inferi e quanto tempo Kore rimase nel regno sotterraneo? Sulla base delle storie narrate queste sono le informazioni di cui siamo in possesso: Demetra vagò per il mondo per nove giorni. Al terzo incontrò Ecate, mentre al decimo ebbe un rapporto sessuale con Poseidone in forma equina mentre si nascondeva da lui tra una mandria di cavalli. Dopo questo periodo la tempistica risulta vaga, ma indicativamente questo fu ciò che avvenne: Demetra si fermò ad Eleusi, divenne qui nutrice di Demofoonte, giunse a conoscenza dei fatti da Trittolemo, si rivolse ad Elio per conferma, salì sull'Olimpo per cercare risposte da Zeus, si sentì negata la possibilità di riavere la figlia, si infuriò e si chiuse nel tempio a lei dedicato per un periodo indefinito maledicendo la terra e non facendo più crescere nulla.
Come ben sappiamo la mitologia non segue schemi lineari; è la grossa difficoltà di un lavoro come questo. Ciò nonostante chi la scrisse dimostrò spesso di non essere per nulla impreparato, disseminandola di sincretismi e simbolismi più disparati, un po' come se volesse lasciare delle molliche di pane come tessere di un mosaico per consentirci di tirare le somme; segno di sicuro che la storia si stratificò nel corso dei secoli. Pertanto cosa accadde? Demetra maledisse la terra e fece costruire un tempio dentro cui si insediò rimanendo triste e cupa. Logisticamente i due eventi citati non avvengono in due giorni. Perché una popolazione semini e perché si renda conto che non cresce nulla è quanto meno necessario che corra una stagione. Il mito nella sua complessità ci fa qui intuire che Kore discese circa in coincidenza con l'equinozio di autunno, o quanto meno verso la metà di agosto, cioè quando è ancora possibile trovare dei fiori di papavero, tornando in superficie pressoché a ridosso dell'equinozio di primavera, ossia all'incirca quando i primi germogli cominciano a sbocciare e ad aprirsi. A conti fatti press'a poco sei mesi sono un tempo ragionevolmente onesto per avviare e terminare la costruzione di un tempio e per seminare e accertarsi che il raccolto sarà magro. E inoltre sono anche un tempo sufficientemente lungo perché, umanamente, una persona possa capire di essersi affezionata o meno a qualcun altro o capire che qualcosa dentro di sé è destinato a cambiare.
Ed è proprio questo punto che si rivela determinante per assimilare il punto focale del mito di Kore, perché è proprio su ciò che accadde negli inferi che le più grandi differenze trasformano la sostanza della storia stessa, il significato intrinseco che porta con sé e, se vogliamo, delineano anche il ruolo di marito e moglie in una società patriarcale.
Il mito qui si distingue per precisi motivi, le cui ragioni nella loro completezza vertono però su una singola causa: la motivazione che spinse Kore a nutrirsi di alcuni semi di melograno. Nel culto greco, infatti, si narra che chiunque, in cielo e in terra, sapesse che la mensa infera non doveva mai essere assaggiata da chi non appartenesse al regno infero. Ma Kore, chissà come, questo non lo sapeva. Giunta nell'Averno rimase dapprima impaurita, piangente e disperata e non volle mangiare nulla. Nonostante la comprensibilità di un tale comportamento, ella non era comunque una schiava in quel regno, essendo diventata la sposa di Ade, alla cui sinistra pertanto aveva il diritto di sedersi. Come tale poteva recarsi ovunque, perché quello era il suo regno esattamente come lo era del marito, che, a parte il rapimento, non mostrò mai segno di essere una persona crudele. L'unica cosa che a Kore non era concessa era di tornare in superficie. Perché? Interessante notare è che anche Ade non era il benvenuto in superficie, nonostante nella spartizione dei tre regni: infero, marino e aureo, la terra dovesse rimanere luogo neutro e regno equamente condivisibile. E questo è chiaro anche dal modo in cui Atena si rivolge a lui quando rapisce Kore nell'opera di Claudio Claudiano: Il Ratto di Proserpina: "Tiranno di una torpida gente, pessimo tra i fratelli - esclama Pallade - quali Eumenidi con aculei e empie fiaccole t’hanno aizzato? Perché abbandoni il tuo regno e osi violare il cielo con l’infera quadriga? Hai le deformi Dire, hai le altre divinità del Lete, e le lugubri Furie, degne delle tue nozze! Vattene dalla casa del fratello, lascia l’altrui retaggio, parti contento del tuo buio! Perché confondi la vita con i sepolcri? Perché straniero calpesti il nostro mondo?". La divisione quindi dei tre regni segna un confine invalicabile per gli dei inferi, a parte rari eventi, così come segna un limite invalicabile per quasi tutti gli dei di superficie: Demetra non scende a prendere la figlia, ma è costretta a chiedere a Zeus che le venga restituita. Non per nulla quando a Persefone viene garantito un accesso al regno di superficie è Ermes che giunge a prenderla e a riportarla su: il dio messaggero e psicopompo. L'unico, assieme ad Ecate (e in un'occasione Dioniso) che può viaggiare negli inferi e tornare. La situazione però è diversa per Poseidone che invece spesso si fa vedere sulla terra e non è confinato al mare. Esattamente come i suoi domini non sono proibiti ad altre divinità, come Efesto, che gettato da Era giù dall'Olimpo trovò rifugio sotto le acque. Gli inferi, quindi, segnano un confine differente, sia per gli dei che per gli uomini. Da entrambe le parti.
Ad ogni modo, nella storia troviamo come Kore si nutrì di semi di melograno, legando in questo modo la sua vita al regno sotterraneo. Secondo Ovidio nelle Metamorfosi la fanciulla ne mangiò distrattamente mentre si trovava nei giardini dell'Averno e in quel mentre fu vista da Ascalafo, figlio di Acheronte e di Orfne, che là rivestiva il ruolo di giardiniere. Secondo altri miti, come l'Inno Omerico a Demetra, Ade "le diede da mangiare un seme di melograno, dolce come il miele, furtivamente guardandosi intorno, affinché ella non rimanesse per sempre lassù, con la veneranda Demetra dallo scuro peplo". Secondo altri miti più tardi, invece, l'interpretazione fu quella secondo cui Persefone mangiò i semi di melograno di sua spontanea volontà, vuoi perché nel tempo passato negli inferi aveva imparato ad apprezzare e ad amare il suo sposo, vuoi perché in qualche modo quel viaggio l'aveva cambiata e aveva deciso di accettare una crescita e una parte oscura di sé, condividendo contemporaneamente il regno infero. Questo a tutti gli effetti spiegherebbe perché nei primi tempi si rifiutò di mangiare nulla: forse Kore sapeva bene che cosa sarebbe accaduto se si fosse nutrita e lo fece solo quando ebbe acquisito la consapevolezza che era in quel luogo per uno scopo superiore al semplice essere stata rapita e che la redenzione e la metamorfosi dovevano passare comunque attraverso delle fasi precise di cui la prima è il rifiuto, la seconda è la comprensione e la terza è l'accettazione.
Ad ogni modo Ermes, su comando di Zeus, venne mandato a riprendere la giovane figlia di Demetra nell'Averno, dato che era l'unico modo per far sì che la dea del grano tornasse a far crescere le messi e interrompesse così il suo lutto. La giovane tornò quindi a riabbracciare la madre, risalendo sulla stessa quadriga che l'aveva vista rapita, questa volta guidata dal dio dai calzari alati. Una volta all'esterno, Demetra, consapevole del vincolo che la mensa infera dava a chi se ne nutrisse, chiese immediatamente a Kore, ormai divenuta Persefone, se avesse mangiato nulla e qui, a seconda delle tre versioni di ciò che accadde ci furono tre diverse risposte. In una versione la figlia replicò mentendo che non aveva mangiato nulla, forse credendo innocentemente di sfuggire al regno infero, ma Ascalafo, il giardiniere che la vide mangiare il melograno, testimoniò a suo sfavore. In un'altra ammise innocentemente di aver mangiato solo dei semi di melograno e nell'altra ancora invece sostenne appunto come fosse stato Ade a darle da mangiare a tradimento. In nessuna versione, a quanto ci arriva, lei ammise di aver preso la decisione consapevolmente.
Per un motivo o per un altro Kore/Persefone rimase legata all'Averno in quanto regina di Ade e per tre/sei mesi l'anno, a seconda del mito, era costretta a discendere negli inferi per sedere alla sinistra del marito, mentre per il restante periodo dell'anno poteva stare in superficie con la madre.
Come ci fa notare Robert Graves: "Core, Persefone ed Ecate erano, evidentemente, la dea nel suo triplice aspetto di Vergine, Ninfa e Vegliarda, nei tempi in cui soltanto le donne partecipavano ai misteri dell'agricoltura. Core simboleggia il grano verde, Persefone il grano maturo ed Ecate il grano raccolto, è cioè la «carline wife» della campagna inglese. Ma Demetra era pure un appellativo generico della dea e Core ebbe in seguito anche il nome di Persefone, il che complica il mito". A questo punto, possiamo chiaramente definire due strade parallele per questo mito, strettamente legate: una essoterica ed una esoterica. La prima è quella agreste: Kore rappresenta la natura verdeggiante che, con l'ingiungere dell'inverno, muore, ossia discende, per riapparire in primavera. Questa è la via essoterica: per trovare una spiegazione al ciclo naturale agricolo venne creato un mito in cui una dea giovane discendeva negli inferi in un periodo determinato per risalire in superficie quando il tempo era giunto perché la natura tornasse a vivere. La seconda è invece quella esoterica, e dà una spiegazione che crea infine anche un proto-mistero femminile: Kore, la fanciulla, è figlia di se stessa e rappresenta la Demetra giovane e non ancora sviluppata che, per scoprire la propria sessualità e la propria capacità di generare figli - di conseguenza di far sì che la natura sia feconda e il grano cresca - deve fare un viaggio iniziatico nel regno sotterraneo (il ventre stesso della madre terra: il Tartaro), per scoprire e cambiare se stessa e per emergere solo dopo aver superato la prova come un'iniziata ai misteri della dea: a tutti gli effetti una donna completa, ossia conscia del proprio potere oscuro e del proprio potere luminoso, pertanto in grado di generare la vita, che è una fusione di entrambe queste facoltà. In questo contesto tutti i simbolismi divengono chiari. Esaminiamoli ora uno ad uno.
In primis Kore è giovane ed innocente, non ancora mestruata, quindi a tutti gli effetti una bambina, probabilmente precedente ai dodici anni. Come era consono nell'epoca in cui ipoteticamente si svolsero i fatti e come è stato in effetti per molti anni, l'uomo si presentava al matrimonio da adulto e già esperto nella sessualità. Per l'iniziazione sessuale di un uomo si usufruiva di prostitute: la famosa "nave scuola". L'uomo doveva già sapere cosa doveva fare e come prima delle nozze. Inoltre spesso l'uomo prendeva una moglie molto più giovane, dedicando la sua vita prima ad altri svaghi. A differenza sua e di conseguenza, una ragazza andava in sposa ad un uomo molto spesso di venti o anche trent'anni più vecchio di lei e quasi totalmente impreparata di fronte a ciò che doveva fare e ciò che ci si aspettava da lei. Non solo quindi il matrimonio era combinato, quindi la fanciulla non aveva il potere di decidere chi sposare, ma si ritrovava incastrata anche in una situazione in cui non aveva via di uscita perché letteralmente era stata venduta, ceduta, scambiata o in alcuni casi rapita. Da interpretare ovviamente sia a livello fisico che a livello emotivo e psicologico. Ecco qui che nel mito Kore, ancora fanciulla, viene rapita contro il suo volere da un uomo che è più vecchio di suo padre (Ade è infatti il fratello più anziano), il quale è anche indiretto intercessore del ratto.
Passiamo al secondo punto: Kore raccoglie fiori sul monte con delle oceanine, quando trova un narciso, o secondo Ovidio un papavero. Innanzitutto il papavero è un tipo di fiore che cresce in particolare tra il grano, quindi lei riconosce, tra gli altri, un fiore che segnerà il suo destino. Come ci fa notare Robert Graves ne I Miti Greci: "Un'immagine della dea con papaveri tra i capelli fu rinvenuta a Gazi in Creta; un'altra dea, in una impronta di sigillo proveniente da Paleocastro, reca papaveri in mano, e nell'anello d'oro del tesoro dell'acropoli di Micene si vede una Demetra seduta che dona tre papaveri a Core, ritta in piedi. I semi di papavero venivano usati per insaporire il pane e i papaveri erano naturalmente associati con Demetra, dato che crescono nei campi di grano. Ma Core raccoglie o accetta in dono papaveri per via delle loro qualità soporifiche e per via del loro colore scarlatto che promette la resurrezione dopo la morte: essa infatti è sul punto di ritirarsi per il suo sonno annuale". Pertanto Kore non sceglie i papaveri per un motivo qualsiasi, ma perché rappresentano lo scopo che dovrà portare a termine: morire e rinascere come Persefone. E se fosse stato un narciso, come dice l'Inno a Demetra? Non sarebbe diverso, dato che per sua natura il narciso è una bulbacea, quindi passa immerso nella terra un lunghissimo periodo di tempo prima di poter sbocciare. Quindi in qualche modo la giovane sa qual è il destino che l'attende.
Terzo punto: Kore, prigioniera nel mondo infero, mangia un melograno. Il frutto di questa pianta, come ben insegna Miranda Gray nel suo Luna Rossa, è uno dei tre frutti mestruali più noti, usati e diffusi nella mitologia e nelle leggende popolari, assieme ad altri due che punteggiano la storia dei miti e delle favole di svariate regioni e religioni: la mela e il fico. Discendendo negli inferi, quindi, Kore volente o nolente è sottomessa al rapporto sessuale con il marito, pertanto "diventa donna", scopre la sessualità e "mangia il frutto del peccato", come è stato interpretato nella visione ebraica. Ma perché un melograno? Il frutto del melograno, così come il pomo e il fico, tagliato, richiama in modo abbastanza rappresentativo l'organo genitale femminile, così come lo fanno il loto, la rosa, l'orchidea e altri fiori, ma più di ogni altro rappresenta l'abbondanza e la ricchezza, oltre ad essere rosso (così come la mela golden usata nel mito e l'interno del fico), quindi richiama il concetto di vita dopo la morte e il concetto del sangue.
Quando ritorna in superficie, Kore si trasforma in Persefone. C'è chi sostiene che Kore "fanciulla" fosse solo un epiteto per Persefone, ma il nome stesso della dea è ben lungi dall'essere ciò che dimostra prima di diventare regina infera. Infatti deriva da phero e da phonos, ossia "colei che porta distruzione" ed ad Atene era nota anche come Persefatta, termine che deriva da ptersis ed ephapto, ossia "Colei che conferma la distruzione". In forma di Persefone non è più nota come una fanciulla "dalle belle caviglie" ma "le cui urla atterriscono i viventi". Questa metamorfosi di Kore in Persefone non è in se stessa terribile, ma dimostra chiaramente una presa di coscienza del proprio potere femminile sia costruttivo (nell'ovulazione) che distruttivo (nella mestruazione) e di riconoscimento e adeguamento al proprio regno, dove, comunque, viene sempre rappresentata a fianco ad Ade con la spiga e il melograno.
La dea vulnerabile per natura, quindi, porta con sé un insegnamento importantissimo per il femminino sacro: ossia l'integrità personale, spirituale e la conoscenza di sé: un'integrità come donna e come essere vivente cosciente del proprio corpo, della propria natura e della propria potenzialità. Un tipo di potere, quello mestruale, che era estremamente temuto dall'uomo che, pur in qualche modo notando come fosse legato ai cicli lunari e come denotasse una dualità nella donna, dividendo la sua vita in quattro fasi, dove mestruo ed ovulazione fanno da spartiacque e cambiandola interiormente in un ciclo continuo, seguendo quindi un andamento di tipo circolare, non riusciva a comprenderla e pertanto ad accettarla. Quando la paura fu troppa, decise perciò di rifiutarla e denigrarla per sottrarle quel potere.
Prima dell'ingiungere del primo menarca indicativamente una bambina e un bambino sono molto simili. Ma dopo lo sviluppo la differenza si fa notare oltre che nei termini fisici, in quelli emotivi, morali e psicologici, in congiunzione con l'apertura del baratro del lato oscuro. Per spiegare questo mistero, oltre che il mito di Kore/Persefone, sono state scritte e raccontate decine di favole diverse che portavano con loro un simbolismo mestruale. A partire da Biancaneve: fanciulla abbandonata nella foresta - che rappresenta il lato oscuro - quando la sua età poteva cominciare ad intaccare e rendersi minacciosa per la matrigna che deteneva il potere, prigioniera del terrore dello scorrere del tempo. Una volta quindi sopravvissuta al viaggio, Biancaneve (il cui nome stesso richiama l'innocenza) viene sottoposta alle prove mestruali dalla strega (la matrigna travestita) che in questo contesto può essere benissimo Ecate, la saggia signora infera con cui Persefone passa la maggior parte del tempo quando si trova nel mondo sotterraneo perché trova forte affinità con lei. Queste prove sono tutte poco allineabili al contesto tranne una: la mela, una golden rossa come il sangue. Grimilde, in forma di anziana strega, porge a Biancaneve una mela avvelenata. Accettandola e poi mangiandola, la fanciulla cade in un sonno mortale da cui si risveglia solo quando un principe di passaggio la nota nella bara di cristallo e chiede ai nani in lutto chi sia. Spostando la bara di cristallo in cui era stata fatta giacere, il pezzo di mela avvelenata esce dalla bocca di Biancaneve, liberandola dall'incantesimo e risvegliandola. Questo simbolismo richiama l'anziana che ha esplorato il mistero mestruale che le pone di fronte la prova: morire e rinascere. Esattamente come Kore che mangia il melograno e diventa Persefone.
Una situazione analoga la troviamo nella favola La Bella Addormentata nel Bosco, dove una principessa figlia di regnanti su un regno pacifico viene maledetta da una strega non invitata dai genitori alla festa in onore della sua nascita. La maledizione scagliata sosteneva che al compimento del sedicesimo compleanno la principessa si sarebbe punta con un fuso e sarebbe caduta in un sonno mortale da cui nessuno l'avrebbe mai svegliata. Nonostante i genitori avessero emesso, immediatamente dopo la maledizione, un editto in cui bandivano l'uso dei fusi in tutto il regno per precauzione, e quindi terrore di crescita, al compiere del sedicesimo compleanno la fanciulla, girovagando in una torre, trovò la strega che tesseva e, incuriosita, dato che non aveva mai visto prima un fuso, volle provare. Si punse il dito, sanguinò, e si addormentò per risvegliarsi quando un principe venne a salvarla per sposarla. Anche qui troviamo lo stesso esempio: alla fanciulla viene annunciata la crescita e il viaggio mestruale che dovrà affrontare e che rifiuta, assieme con i genitori. Quando viene il momento però si rende inevitabile, pertanto si punge con il fuso, perde sangue (quindi mestrua) e muore rinascendo tra le braccia di un uomo che la rende completa sposandola.
La stessa situazione la ritroviamo anche nella Bibbia, nel libro della Genesi, ossia la favola più antica del mondo: Eva e Adamo vivono in un regno selvaggio e mitico governato da una divinità creatrice di sesso maschile: Yahweh; un regno confinato privo di morte e sessualità nel cui cuore sorge un albero della conoscenza che porta con sé frutti non ben specificati a cui ai due è proibito l'accesso con la scusa, per altro falsa, che mangiarne porterebbe alla morte. Un animale simbolico: il serpente (simbolo antico ctonio di saggezza legato all'antica madre protostorica, la Potnia Theron - in sostanza Gea/Rhea/Demetra), invita Eva a nutrirsi dei frutti di questo albero sfidando così l'autorità della divinità creatrice, e alle domande tentennanti della donna che in primis si rifiuta sostenendo che ne morirebbe, il serpente asserisce che non è affatto così, ma che semplicemente porterà loro la conoscenza del bene e del male, pertanto la coscienza di sé, la crescita e la maturità e la possibilità di ascendere al pari del dio creatore; sostanzialmente a livello esoterico avere il potere di decidere del proprio destino e di poter generare la vita, cosa che prima era appannaggio del solo Yahweh. Eva, convinta, mangia il frutto e ne dà da mangiare al compagno Adamo. Solo a quel punto i due scoprono di essere nudi, perché ottengono la coscienza di sé, e usando delle foglie di fico si coprono le parti intime.
Il frutto dell'albero della conoscenza è sempre stato passato come una mela, ma a giudicare dal fatto che è con foglie di fico che nel mito loro si coprono i genitali è ragionevole pensare che è di questo frutto che si trattasse: ancora una volta un tipo di frutto mestruale, che, aperto, richiama l'organo genitale femminile maturo.
In questo mito, che prenderei ad esempio solo come favola e non per criticare o mettere in dubbio la teologia ebraica e cattolica, dato che non è di mio interesse e non ha attinenza alla filosofia stessa del nostro sito, se Eva era Eva prima di mangiare il frutto, perché si ritiene sia cambiata al punto da essere bandita dall'Eden assieme al compagno Adamo? Può essere che fosse solo per aver violato le leggi universali imposte dalla divinità o c'era qualcosa d'altro? Inoltre, se Eva e Adamo erano sviluppati prima di mangiare il frutto, perché solo dopo essere stati cacciati dal paradiso terrestre, quindi dopo essere caduti in disgrazia agli occhi di Yahweh, vennero maledetti con la punizione divina: uomo tu lavorerai con gran sudore, donna tu partorirai con gran dolore? Solo dopo il bando dall'Eden Eva rimane gravida di Caino e Abele. Non prima. Non è logico pensare che questo ci riconduca ad una antica spiegazione del ciclo vitale della donna e dell'uomo che prima di scoprire la sessualità vivono in un mondo dove non esiste malizia, desiderio, inganno e il litigio per il semplice fatto che prima erano bambini, e quindi non in età di provare pulsioni sessuali?
In sostanza, se questi tre esempi possono essere presi come veritieri, abbiamo la stessa situazione nel mito di Kore: una fanciulla deve accettare il proprio lato oscuro, la propria sessualità, per conoscere e comprendere il proprio potere e diventare integra. L'altra possibilità di integrità è quella di non conoscere la sessualità ma di rimanere asceticamente vergine e distaccata e rifiutare completamente il legame con il maschile: la scelta che hanno fatto le dee vergini e non vulnerabili come Estia, Atena ed Artemide.
Come abbiamo visto quindi, Kore, dopo la discesa e dopo il matrimonio infero con Ade, diviene legittima regina degli inferi. In una versione del mito quando viene fatto notare al dio dell'Averno come avesse preso per sé con la forza una fanciulla innocente senza la minima consapevolezza, questo risponde con una risata rivelando che la prima cosa che Persefone fece appena sposata con Ade fu quella di strangolare Menta, una leggiadra ninfa infera partorita dal Cocito, che Ade aveva reso sua concubina, dopo che questa aveva lasciato ad intendere che, grazie alle sue capacità erotiche, avrebbe potuto riprendersi suo marito quando voleva. Fu solo per intercessione di Ade che Menta divenne una pianta profumata che però Demetra maledisse negandole la fruttificazione. Questo dettaglio fa notare non solo che Persefone accettò quindi il ruolo di Regina, ma che era pronta a combattere per tenerlo, mostrando un forte lato maturo e distruttivo e una gelosia del marito che sarebbe ingiustificata se paragonata alla giovinetta che si rammarica per i fiori che le cadono dal vestito quando viene rapita e che piange disperata per la separazione dalla madre.
Da questo momento in poi i miti che interessano questa dea sono legati solamente al suo aspetto di Persefone. Ella divenne signora del grano, prendendo in questo contesto un ruolo paritario a quello di Demetra, che in antichità aveva il suo stesso nome. Rappresentava quindi l'oro del sottosuolo, l'abbondanza del seme che sta per sbocciare e, in seguito, la forza genitrice che spinge la spiga allo scoperto, verso la luce del sole, così come lei ritrovò la via per tornare alla superficie.
Quasi tutti i miti che vedono interessata Persefone hanno qualche attinenza, per ovvie ragioni, con catabasi e in qualche modo hanno legami con il suo stesso mito, come capita con Orfeo, eroe tracio legato sia ad Apollo che a Dioniso, figlio di Calliope e del re Eagro, innamorato di Euridice e musicista e poeta dal talento straordinario. Aristeo, figlio del dio del sole, anch'egli innamorato della stessa donna, mentre cercava di prenderla a sé la indusse a fuggire e, nell'erba alta, la giovane mise accidentalmente un piede su una vipera che la morsicò avvelenandola e uccidendola. Orfeo, devastato, affrontò una discesa nell'Averno per riprendersi Euridice e, armato della sua lira, avuta in dono dallo stesso Apollo, con una canzone riuscì a convincere Caronte a traghettarlo oltre il fiume Stige; suonando calmò anche il guardiano Cerbero, il cane a tre teste ed entrò così nei cancelli degli inferi. Ovidio ci narra di come si trovò di fronte al tormentato Issione, condannato da Zeus ad essere legato ad una ruota che non smetteva mai di girare per aver desiderato Era e di come, con la musica, Orfeo fermò momentaneamente il tormento dando al malcapitato un sollievo. In seguito si trovò di fronte alla prigione di Tantalo, che aveva massacrato il suo stesso figlio per darne in seguito le carni agli dei e che aveva rubato l'ambrosia divina per donarla all'umanità. Egli era stato condannato a restare legato a testa in giù ad un albero che dava frutti sui rami e che rimaneva sommerso nell'acqua per le radici senza però poter bere o mangiare perché ogni volta che provava i rami si alzavano o il livello dell'acqua si abbassava. Orfeo, suonando, cercò di dargli un sollievo ma Tantalo rimase comunque legato, quindi anche se l'albero non si muoveva più il suo tormento rimaneva comunque indefesso. Dopo questi incontri Orfeo giunse alla corte di Persefone, dove Ovidio ci dice che Ade e la dea lo guardavano con uno sguardo gelido. Qui, suonando la sua lira, l'eroe mise tutto se stesso cantando della sua sorte sfortunata e in ultimo riuscì a commuovere la dea degli inferi che acconsentì a che Euridice tornasse in superficie, a patto che durante il viaggio lui non si voltasse mai a guardarla. Orfeo accettò e, insieme all'amata e secondo alcuni anche con Ermes, ricominciò la salita. Quando ormai mancavano pochi passi per raggiungere l'uscita il musico venne colto da un dubbio atroce e, convinto che potesse trattarsi di un oscuro e crudele inganno e che a seguirlo non fosse la sua amata ma uno spirito infernale, decise di voltarsi, condannando così Euridice all'eternità nell'Averno insieme con gli altri spiriti dei morti. A nulla valsero i suoi tentativi di convincere nuovamente Caronte a traghettarlo, questa volta.
Il mito di Orfeo trova spunto nel mito di Dioniso, a cui era strettamente legato. Infatti il sacro poeta trovava la perfetta armonia tra la visione apollinea fatta di linearità, ordine e misura con quella dionisiaca fatta di ciclicità, caos ed eccessi. Ricevette quindi in dono da Apollo la lira, a cui aggiunse due corde, ma visse una vita legata alla natura, come Dioniso. Se non che, dopo la sua catabasi fallita, si ritirò e visse una vita ascetica e, rifiutando di farsi sedurre dalle baccanti, finì smembrato. La sua testa staccata dal corpo continuò a profetizzare per lungo tempo finché Apollo stesso non gli ordinò di smetterla perché attraeva più seguaci al suo oracolo di quanti si recassero a quello di Delfi.
Orfeo è legato a Persefone anche per via dei Misteri Orfici, che trovano un’attinenza con quelli Dionisiaci ed Eleusini, dato che erano comunque contestualizzati nel concetto di sopravvivenza della vita dopo la morte. Robert Graves nel suo I Miti Greci sostiene che "la morte di Euridice per il morso di un serpente e il fallito tentativo di Orfeo di riportarla alla luce del sole, figurano soltanto nella versione più tarda del mito: tale versione pare sia stata erroneamente tratta da rappresentazioni di Orfeo nel Tartaro, intento a suonare la lira per indurre la dea-serpente Ecate o Agriope («volto selvaggio») a concedere speciali privilegi a tutte le ombre che erano state iniziate ai Misteri Orfici, oppure da un'altra raffigurazione di Dioniso (di cui Orfeo era sacerdote) mentre scendeva al Tartaro per cercare la madre Semele. Erano le vittime di Euridice (e non Euridice stessa), che dovevano morire per il morso di un serpente".
Da notare è che anche Dioniso affrontò una catabasi per liberare la madre Semele, la dea lunare e, secondo alcuni miti, sposò la stessa Persefone. In riferimento proprio a questo contesto vediamo come Ade e Dioniso abbiano delle attinenze e somiglianze talmente enormi da renderli praticamente la stessa divinità così come lo sono Demetra e Persefone e così come le identifica anche Eraclito nel famoso e contestato frammento del suo trattato filosofico. Quindi questo matrimonio avrebbe un senso ancora maggiore in questo contesto, riferendoci al fatto che Dioniso fruttifica quando Persefone discende negli inferi e che lei fruttifica quando è invece Dioniso a discendere. Questa complementarità è assai comune nelle divinità arboree, che infatti rimangono legate tra loro, così come avviene anche per Adone; questo accade perché tutte possiedono e mantengono vivo un forte aspetto ctonio cui attingono nelle loro diverse manifestazioni: Dioniso, Zagreo e Orfeo smembrati e in ultimo anche Iacco, il bambino divino del mito orfico fratello/figlio della stessa Persefone. Questa figura nell'Inno a Demetra appare come figlio di Iambe/Baubo, a sua volta serva della regina Metanira di Eleusi, e fa apparire il figlio da sotto la veste fingendo di ripartorirlo. Un atto questo che ha duplice significato: il primo è mera goliardia per far sorridere la dea quando questa si trova a corte, dato che è cupa e mestamente chiusa in se stessa per la disperazione della perdita della figlia, e l'altro è che Iacco è, nel mito orfico, il figlio divino che ritorna dagli inferi, quindi a tutti gli effetti un dio arboreo. E, per completare, c'è da ricordare anche Adone, che benché chiuso in un sarcofago trova il suo ruolo a fianco alla dea infera.
Persefone ci appare nel mito che interessa appunto questo giovane: il bellissimo figlio di Mirra, principessa cipriota figlia di Candreide e di Cinira. Il mito narra di come la madre si vantò di avere una figlia che potesse superare in bellezza la stessa Afrodite. Ovviamente colpita in modo sfavorevole da questo spregio nei suoi confronti, la dea insinuò un perverso desiderio nella giovane Mirra, che cominciò a bruciare per suo padre. Confessata questa brama alla madre ella dispose in modo che, durante la festa di Demetra, la figlia incontrasse il marito nell'oscurità del talamo dove egli dormiva completamente ubriaco e che giacesse con lui per nove notti consecutive. Mirra rimase gravida e quando il re Cinira di Cipro si accorse di ciò che era avvenuto e che egli era sia padre che nonno della creatura che la figlia portava in grembo e che ormai era prossima al parto, inorridito dall'infausto e perverso evento, si avventò su di lei con una spada per ucciderla. Mirra fuggì dal padre implorando gli dei di venirle in soccorso e Afrodite, che nel frattempo si era pentita di ciò che aveva fatto, la tramutò in un albero che da quel momento portò il suo nome: la Commiphora myrrha, da cui si estrae una gommaresina che veniva bruciata appunto nei rituali in onore del dio Adone. Dal tronco dell'albero, su cui il padre infierì a colpi di spada, fuoriuscì un bambino di straordinaria bellezza che venne salvato da Ilizia, la dea del parto, e che Afrodite chiuse immediatamente in un cofano affidandolo a Persefone, affinché lo tenesse negli inferi al sicuro dalla gelosia di Ares, che era suo amante, con la promessa che non lo aprisse. La curiosità ovviamente vinse sulla promessa e la dea oscura aprì il feretro, si innamorò di Adone e ne fece il suo amante. Quando Afrodite lo venne a sapere decise di reclamarlo e così nacque una disputa in cui venne coinvolto Zeus, il quale, intuendo la situazione spinosa in cui si trovava, ancora una volta delegò il tribunale ad una musa: Calliope. Ella decretò che le dee avrebbero dovuto avere eguali diritti e che Adone sarebbe dovuto stare per quattro mesi all'anno negli inferi con Persefone, per quattro mesi all'anno con Afrodite e per i restanti quattro mesi sarebbe stato libero di scegliere. Ma la dea dell'amore non si diede per vinta e usando il potere della sua magica cintura dorata convinse Adone a passare con lei anche i quattro mesi in cui sarebbe stato libero di decidere da solo. Persefone, inviperita dal suo comportamento scorretto, corse da Ares e gli rivelò di come la sua amante preferisse a lui "un semplice mortale, e per di più effeminato". Il dio della guerra si ingelosì e, trasformandosi in un cinghiale, si avventò sul rivale mentre questi era a caccia sul monte Libano e lo smembrò proprio di fronte allo sguardo attonito della dea dell'amore. Dal sangue di Adone crebbero degli anemoni. Secondo alcuni le rose, a lui sacre, sono ora rosse anziché bianche perché Afrodite, correndo verso il suo amato, si punse i piedi nudi con le spine che da quel momento presero il colore del suo sangue.
Adone però non era di origine greca, ma era un dio arboreo intruso di origine semitica, il cui nome significa "Signore" e secondo James Frazer, teoria che viene anche ripresa da molti altri mitografi, in realtà questo è solo un epiteto per una divinità differente: Tammuz, onorato dalle popolazioni babilonesi e siriane pre-ebraiche. Nel mito sumero Tammuz era noto come Dumuzi ed era il divino paredro della dea Inanna. Questa divinità antichissima è considerabile come una versione sumera della stessa Persefone, in quanto come lei non solo svolge un ruolo relativo al culto arboreo ed è legata ad una divinità tale, ma affronta la discesa infera in uno dei miti più intensi e antichi di tutta la mitologia umana: il poema accadico noto come "La Discesa di Inanna", contenuto nelle tavolette di Nippur, rinvenute all'inizio del secolo scorso nel sud dell'attuale Iraq.
Inanna ci appare in alcuni diversi miti. Il primo parrebbe mitologicamente antecedente alla sua discesa infera, ma ci rappresenta il carattere di questa dea. Si tratta di un poema che narra dell'albero di Huluppu, ed è stato rinvenuto su tavolette sumere in argilla risalenti al III secolo a.C. In questo mito si narra di come, in un periodo antichissimo, appena dopo la creazione del mondo, ossia: "I primi giorni, i primissimi giorni. Le prime notti, le primissime notti. I primi anni, i primissimi anni, nei giorni primi, quando tutto il dovuto fu chiamato a vita, nei giorni primi, quando tutto il dovuto ebbe il dovuto alimento", quando quindi gli dei ebbero già definiti i loro ruoli, venne piantato un albero di huluppu sulle rive del fiume mesopotamico Eufrate (vedremo dopo il simbolismo di questa pianta). L'acqua del fiume lo nutrì e il vento del sud lo sradicò trascinandolo via sulle acque finché non venne trovato da Inanna che disse: “Io porterò quest’albero ad Uruk. Io pianterò quest’albero nel mio giardino sacro”. Fece questo con lo scopo di trarne un trono e un letto nuziale e si mise all'opera per far sì che, con le sue stesse mani, l'albero potesse crescere e irrobustirsi. Attese così dieci anni e quando giunse il tempo per lei di tagliarlo si rese conto che era troppo forte e che tre abitanti ne avevano reclamato il possesso: un serpente resistente agli incantesimi si era annidato tra le radici, l'uccello Anzu aveva fatto il nido sui rami e la vergine oscura, Lilith, dimorava nel tronco. Per quanto Inanna piangesse, i tre ospiti erano lungi dall'essere intenzionati ad andarsene. Si rivolse così a suo fratello Utu, cercando di convincerlo ad aiutarla, ma questi si rifiutò, pertanto si rivolse a Gilgamesh, l'eroe di Uruk a cui fu dedicata un'intera Epopea sumera, il quale decise di aiutarla. Indossò la sua armatura, prese la sua scure di bronzo e mettendosela in spalla si recò nel giardino di Inanna. Con l'arma colpì e uccise il serpente che si annidava nelle radici, e il colpo che vibrò all'albero fu così forte che fece fuggire l'uccello Anzu verso le montagne e distrusse quindi la dimora di Lilith che "volò verso recessi selvaggi e inabitati", ossia il deserto, un simbolismo che richiama il Talmud ebraico, quando Lilith, prima sposa di Adamo, fu cacciata dall'Eden. Ma questo è un discorso a parte.
Gilgamesh scavò quindi un trono per la sorella nel tronco e un letto con il suo legno.
Inanna qui emerge quindi come una ragazzina disperata e innocente che chiede l'aiuto del fratello per compiere un atto di forza bruta: ossia scacciare e uccidere animali e spiriti che portano con loro un forte simbolismo psicologicamente riconducibile al lato oscuro: il serpente - lo stesso animale che avrebbe tentato Eva - e Lilith, la prima moglie di Adamo nel libro sacro ebraico del Talmud ma, precedentemente, la dea babilonese della libertà sessuale e del potere oscuro femminile.
Esaminiamo ora il simbolismo dell'albero, noto come "di huluppu", quindi relativo ad una specie. Di che albero si tratterebbe? Secondo gli studi effettuati da Samuel Noah Kramer e Diane Wolkstein, autori tra le altre cose dell'ormai introvabile Il mito sumero della vita e dell'immortalità. I poemi della dea Inanna, sarebbe un salice, pianta nota per aver bisogno della vicinanza dell'acqua per poter crescere e prosperare. Ma, oltre a questo, pianta ricercata da sempre per la sua flessibilità e simbolicamente legata alla sterilità. Il nome stesso del salice è Salix babylonica e come ci dice Alfredo Cattabiani nel suo Florario: "Il salice piangente non è originario dell'Europa ma della Cina, da dove fu portato nel 1692 per essere poi classificato da Linneo come Salix babylonica in ricordo di un versetto dei Salmi in cui rievoca la cattività degli Ebrei: Lungo i rivi di Babilonia dimorando là insieme piangevano al ricordarci di Sion. Ai salici di quel paese avevamo appese le nostre cetre. Il riferimento di Linneo a Babilonia era puramente fantastico perché il salice dell'Antico Testamento non poteva essere quello cinese, ma una delle tante specie che, originarie del Vicino Oriente e dell'Asia Minore, si sono diffuse in Europa fin dai tempi arcaici, suscitando una lunga e complessa storia simbolica che prende le sue mosse dall'Odissea. Omero ci racconta che Circe, accomiatandosi da Odisseo, gli diede una serie di istruzioni perché potesse penetrare nelle case dell'Ade. Gli disse fra l'altro:
E quando con essa [la nave] l'Oceano avrai attraversato
ecco la costa bassa e le selve di Persefone,
ecco gli alti neri pioppi e i salici che perdono i frutti:
là tu approda con la nave, sull'Oceano dai gorghi profondi,
e scendi nelle case putrescenti dell'Ade
.
" Il salice quindi non fu scelto a caso. Omero ci fa notare come questi alberi "perdono i frutti". In realtà è solo un'illusione dovuta alla poca conoscenza dell'epoca, riportata anche da Teofrasto, che interpretò il breve ciclo vitale del frutto del salice come una tendenza della pianta ad "abortire i figli". In realtà, come ci fa notare sempre Cattabiani, "dopo la fioritura la fruttificazione si completa assai rapidamente con frutti che sono capsule contenenti alcuni semi attorniati da peli cotonosi e capaci di provvedere a una vasta disseminazione anemocora. Ma la rapidità della loro maturazione e la conseguente caduta evocò nei Greci l'immagine di un albero vivente uccisore del proprio frutto, simbolo della Madre Terra che perpetuamente generosa, per poi riprendere nel suo grembo gli esseri generati. (...) L'albero era sacro anche a Persefone e a Ecate il cui nome, che significa centinaio, alludeva ai cento mesi della permanenza della figlia di Demetra presso Ade. Il suo legame con Persefone è testimoniato dal famoso dipinto di Polignoto a Delfi, descritto da Pausania, dove Orfeo riceveva il dono dell'eloquenza toccando i salici di un boschetto sacro alla dea".
Questo simbolismo quindi già richiama il collegamento infero che Inanna portava con sé, proprio come Kore che scelse il papavero (o il narciso) spalancando così la terra e favorendo il proprio rapimento. Ed infatti, l'altro mito che interessa questa dea è relativo alla sua discesa negli inferi. Per capire bene cosa accadde è bene però spiegare il ruolo che aveva Inanna nel pantheon sumero. Ella era chiaramente una dea della fecondità, come testimoniano i fianchi larghi e i seni prosperosi e, per come viene sempre rappresentata, ossia con la gonna a balze e i seni scoperti, richiama molto le raffigurazioni della Potnia Theron con i serpenti alzati all'altezza della testa. Era definita in molti modi differenti, ma tra tutti forse il più importante è "Dea di tutte le cose". Ma vediamo di capire un minimo questo pantheon per avere una più facile comprensione del mito.
Gli dei sumeri erano noti come Annunaki. Il loro pantheon era costituito da una sorta di consiglio presieduto da An, il dio del cielo e da altri sei dei supremi, di cui quattro erano i principali: An il cielo, Enlil l'aria, Enki il mare e Ninhursag la terra. Inoltre c'erano Inanna, Utu e Nanna. Oltre a questi c'erano gli Igigi, i cinquanta dei minori.
La grossa divisione che esisteva tra queste divinità creatrici era il destino stesso della nostra civiltà, dovuta alla differenza di pensiero dei due fratelli, i principi Enlil ed Enki. Il primo riteneva che l'uomo non fosse capace di avere un rapporto armonioso con la terra, pertanto desiderava annientare l'umanità, mentre l'altro riteneva che se guidati ed ispirati, gli esseri umani avrebbero potuto vivere in armonia con la natura. Gli Annunaki erano quindi divisi in due clan distinti: gli Enliliti e gli Enkiliti. Inanna faceva parte del primo clan, in quanto discendente di Enlil e figlia del re Nanna. Per cercare di creare una coesione e una rappacificazione tra queste due fazioni, la dea stava per sposare il dio arboreo Dumuzi, che invece apparteneva al clan rivale. Prima però di decidere, Inanna aveva due corteggiatori: un pastore e un agricoltore. Il nome dell'agricoltore non ci giunge nel mito, mentre quello del pastore era appunto Dumuzi, figlio di Enki. Il fratello di Inanna, Utu, spinse la sorella a decidere di sposare il pastore, mentre lei era decisa per l'agricoltore, come ci arriva dal poema relativo al corteggiamento:
"Il pastore! Non sposerò il pastore!
Le sue vesti sono rozze; la sua lana è ruvida.
Sposerò l'agricoltore.
L'agricoltore coltiva il lino per le mie vesti.
L'agricoltore coltiva l'orzo per la mia tavola."
In ultimo, con parole dolci Dumuzi conquistò il cuore di Inanna e i due fecero per sposarsi. Temendo però che il dominio soverchiasse il suo, il fratello di Dumuzi cercò di ordire un complotto affinché i due non si sposassero: lo portò a credere che stesse per essere rapito e lo indusse a fuggire, precipitando poi in un dirupo. Infuriata Inanna aizzò il clan Enlilita contro gli avversari scatenando così una guerra terribile e, in seguito, divenne una seduttrice di uomini e di dei, tanto che, nella stessa Epopea di Gilgamesh, suo fratello la rifiuta sostenendo che "chiunque giacesse con lei finisse ucciso".
Ora, come dicevamo più sopra, il poema che ci interessa, lungo e complesso, è stato trovato su tavolette d'argilla provenienti dalle rovine della città di Nippur, nella parte più meridionale della Mesopotamia, relative all'attuale Iraq e ci narra di come Inanna decide di intraprendere un viaggio negli inferi per fare visita alla sorella Ereshkigal, la Regina del Gran Luogo Inferiore, cui fu dato il mondo sotterraneo per dominio. Il motivo della visita, anche se non specificato all'inizio del poema, sono le condoglianze alla sorella per la morte del suo sposo Gugalanna. Ma in realtà Ereshkigal rappresenta la parte oscura di Inanna, il suo completamento, la sua integrità. Inanna, decisa a partire, prende con sé i sette Me, le tavole su cui erano scritte le leggi universali, osservate da uomini e dei e dapprima conservate da Enki, ma sottrattegli dalla dea con l'inganno per portarle alla sua città come dono.
I sette Me, nel poema, vengono rappresentati come sette oggetti simbolici che la dea indossa, quindi gioielli, vestiti e ornamenti, come ci giunge direttamente dalle tavolette di Nippur:
"Raccolse i sette me.
Li prese in mano.
Preso possesso dei me, si preparò.
Si cinse il capo della shugurra, la corona della steppa.
Si acconciò i riccioli scuri sulla fronte.
Si cinse il collo dei piccoli grani di lapislazzuli.
Lasciò scendere sul petto la doppia collana di grani.
Si avvolse il corpo nella veste regale.
Si tinse gli occhi con l’unguento che si chiama "Che venga, che venga".
Indossò il pettorale che si chiama "Vieni, uomo, vieni!".
Si infilò al polso il cerchio d’oro.
Prese in mano il regolo di lapislazzuli e il filo della misura."
Possiamo quindi identificare i sette Me così: la corona, il girocollo di grani di lapislazzuli, la doppia collana di lapislazzuli, la veste regale, il pettorale, il braccialetto d'oro, il regolo di lapislazzuli e il filo della misura. Fatto questo Inanna partì per il regno sotterraneo, portando con sé la fidata serva Ninshubur e avvertendola che se non fosse tornata lei avrebbe dovuto alzare lamenti funebri per la sua morte, percuotendo il tamburo, aggirandosi alle case degli dei, graffiandosi occhi, bocca e cosce e vestendo come una mendicante. Dopodiché le raccomandò di recarsi nel tempio di Enlil a Nippur per cercare la sua salvezza e, se lui non avesse voluto ascoltarla, a quello di Nanna a Ur e se nemmeno lui avesse voluto aiutarla si sarebbe dovuta recare a Eridu, al tempio di Enki, che di sicuro non l'avrebbe lasciata nelle braccia della morte. Giunta ad un certo punto si voltò e ordinò alla serva di tornare indietro, perché oltre avrebbe dovuto proseguire da sola.
Inanna si trovò così di fronte ai cancelli del regno di Kur, dal quale non si faceva ritorno. Il capo dei guardiani, Neti, le domandò il motivo della sua visita in quel luogo e lei replicò che sua sorella Ereshkigal aveva perduto di recente il marito Gulaganna, il Toro del Cielo, per mano dell'eroe di Uruk Gilgamesh, come narrato nell'Epopea a lui dedicata, e che lei aveva viaggiato fino a quel luogo per assistere ai suoi riti funebri.
Neti le chiese di attendere che parlasse con la regina e quando questa seppe dal servitore che Inanna era giunta recando i sette Me gli ordinò di serrare le sette porte che davano accesso al regno degli inferi e poi di socchiuderle appena, per ogni porta spogliando Inanna di ogni oggetto ed ogni indumento regale, affinché entrasse nuda e prostrata nel regno della morte. Il guardiano fece come gli fu ordinato, aprì la porta esterna ad Inanna, invitandola ad entrare, e non appena ebbe superato il primo accesso le tolse dal capo shugurra, la corona della steppa. La dea protestò chiedendo che cosa significasse e Neti rispose: "Taci, Inanna, le usanze del mondo sotterraneo sono perfette. Esse sono indiscutibili".
Superata la seconda porta Neti la privò quindi dei piccoli grani di lapislazzuli e ancora, alla sua richiesta di spiegazioni, le fu risposto allo stesso modo. E così si proseguì per sette porte, in cui alla terza fu privata della doppia collana di grani, alla quarta del pettorale che si chiama "Vieni, uomo, vieni!", alla quinta del cerchio d’oro che teneva al polso, alla sesta il regolo di lapislazzuli e il filo della misura e alla settima ed ultima della veste regale.
A quel punto il poema racconta di come "nuda e china a terra, Inanna entrò nella sala del trono. Ereshkigal si alzò dal trono. Inanna si avviò verso il trono. Gli Annuna, i giudici del mondo sotterraneo, la circondarono. Pronunciarono la sentenza contro di lei. Allora Ereshkigal fissò su Inanna gli occhi della morte. Pronunciò contro di lei la parola dell’ira. Emise contro di lei il grido della colpa. La colpì. Inanna fu mutata in un cadavere, un pezzo di carne putrescente e fu appesa a un gancio nel muro".
Denudata e privata di qualsiasi orpello della sua regalità e umanità, Inanna venne uccisa. Non vedendola tornare dopo tre giorni e tre notti, come le era stato ordinato, la serva Ninshubur cominciò i lamenti funebri per la sua padrona e si recò ai templi nelle città di Nippur, Ur e infine Eridu per cercare la compassione dei tre dei Enlil, Nanna ed Enki (che appaiono tutti come padri della dea). Come previsto da Inanna solo l'ultimo rispose e si prodigò per salvarla. Togliendosi della terra da sotto le unghie creò Kurgarra e Galatur, due creature né maschio né femmina, pertanto non soggette alla morte, e le istruì dando loro l'alimento e l'acqua della vita. I due si infiltrarono tra le porte nel regno di Ereshkigal come mosche e, come Enki aveva loro ordinato, la assistettero nei suoi lamenti ripetendo ciò che lei gridava; fatto questo ottennero come previsto la sua simpatia e lei offrì loro svariati doni che i due rifiutarono per avere invece il cadavere freddo appeso ad un gancio che dondolava nella stanza del trono. Ereshkigal asserì che si trattava di Inanna e loro risposero che di chiunque si trattasse era ciò che loro desideravano. Ottenutolo "il kurgarra asperse il cadavere dell’alimento della vita. Il galatur asperse il cadavere dell’acqua della vita. Inanna risorse".
A quel punto Inanna stava per risalire quando gli Anunna la fermarono e afferrandola le dissero che a nessuno era concesso di ritornare dal regno degli inferi e che se avesse voluto risalire avrebbe dovuto lasciare qualcuno al suo posto a compensare la perdita. I Galla quindi, dei demoni inferi del destino, la seguirono fino alla superficie. Il poema descrive queste creature in questo modo: "I Galla non conoscono cibo, non conoscono bevanda, non mangiano offerte, non devono libagioni, non accettano doni, non gioiscono dell’amore. Non hanno dolci bimbi da baciare. Essi strappano la moglie dalle braccia del marito, strappano il bimbo dalle ginocchia del padre, rubano la sposa dalla casa nuziale. I demoni si misero alle costole di Inanna. I piccoli Galla che accompagnavano Inanna erano simili a giunchi alti come un piccolo recinto. I Galla più grandi che accompagnavano Inanna erano simili a giunchi alti come un alto recinto. Quello che camminava davanti ad Inanna, pur non essendo un ministro, portava uno scettro. Quello che le camminava dietro, pur non essendo un guerriero, portava una mazza".
Giunti in superficie Ninshubur, vestita poveramente, graffiata e sporca accolse Inanna e subito i demoni lasciarono libera la dea per prendere con loro la serva, ma la dea dal cuore immenso si rifiutò, sostenendo che per lei fosse troppo importante e di come avesse elevato i canti funebri e l'avesse aiutata a tornare alla vita. Pertanto, assieme con i Galla, si diresse ad Umma, dove nel tempio la attendeva Shara, suo figlio, vestito a lutto. I Galla asserirono quindi che avrebbero preso lui, ma Inanna ancora si oppose, sostenendo che non potevano averlo perché le cantava gli inni, le tagliava le unghie e le pettinava i capelli. A quel punto ripartirono alla volta di Badtibira dove si trovava un altro figlio di Inanna, Lulal, anche lui vestito a lutto. I Galla proposero quindi di prendere lui ma la dea ancora una volta si rifiutò, sostenendo che fosse il suo braccio destro e sinistro, pertanto decisero di ripartire per Uruk e lì si trovarono innanzi a Dumuzi, marito di Inanna, il quale sedeva sul trono vestendo con abiti sontuosi e, fissandolo con lo sguardo della morte e vedendo che non si disperava e non la onorava, lo diede in pasto ai Galla, ordinando loro di prenderlo.
Dumuzi sfuggì ai demoni chiedendo l'aiuto di Utu, che lo trasformò in un serpente e in seguito in una gazzella, rifugiandosi dalla sorella che cercò di proteggerlo, ma alla fine i demoni Galla lo presero e lo portarono con loro. Geshtinanna, sua sorella disperata, pianse insieme alla madre Sirtu e le loro lacrime commossero Inanna che, su suggerimento di una mosca sacra, la accompagnò fino ad Arali, un confine tra il regno umano e quello infero dove trovarono Dumuzi piangente e, su richiesta stessa della sorella, decisero di dividersi il tempo annuale da passare negli inferi sei mesi ciascuno, placando così il volere degli Anunna.
A questo punto il poema si chiude. Per quanto quindi a rimanere chiuso negli inferi sia Dumuzi, versione sumera di Tammuz, l'Adone assiro-babilonese, ossia il vero e proprio dio arboreo, troviamo come anche in questo mito Inanna incarni la giovane che deve mettersi a fronte con la sua sorella oscura: Ereshkigal. Non solo quindi abbiamo un'interpretazione legata al ciclo della vegetazione dove Dumuzi, il dio arboreo, si concede sei mesi alla dea generativa e luminosa - la primavera, e sei alla dea distruttiva e oscura - l'inverno, ma anche un'interpretazione iniziatica. Inanna si libera dei sette Me per discendere negli inferi; anche quando i Galla misero le mani su Dumuzi gli intimarono di privarsi degli stessi abiti simbolici: i sandali, la corona, lo scettro, la veste perché doveva andare con loro completamente nudo. Il concetto è che per discendere negli inferi sia necessario presentarsi privi di altro che di se stessi, quindi nudi in senso metafisico. La discesa negli inferi, vista come una versione iniziatica, esattamente come con la versione greca di Persefone, è quindi la conoscenza di sé. Inanna incontra la sua gemella oscura Ereshkigal che la uccide; situazione che non si rivela essere eterna, perché dopo un periodo non ben specificato ma superiore ai tre giorni (e qui non spendo parole per il richiamo ad un'altra divinità della mitologia cristiana - vissuto nello stesso luogo - che muore e risorge dopo lo stesso lasso di tempo), la dea torna alla vita grazie all'intercessione di chi la attende (in questo caso la serva Ninshubur) con la divinità padre. Di ritorno dal suo viaggio nell'oscuro mondo sotterraneo Inanna è quindi completa e può, sposandosi, portare la fertilità alla terra. La differenza che corre tra una dea e un dio che viaggi dagli inferi alla superficie e viceversa è probabilmente dovuta al fatto che, come vediamo nel Poema di Inanna, il regime non era di tipo patriarcale, ma la dea poté scegliere il marito che preferiva tra due pretendenti. Fu solo in seguito al matrimonio che Dumuzi ottenne il regno. Se non fosse stato così non ci si spiega come mai il fratello temesse per la perdita del suo potere. Il significato sta nel fatto che in antichità la via regale era matrilineare, quindi un uomo diveniva re se andava in sposo ad una regina e non il contrario. Diversamente nel mito greco, che si basa su una cultura che segue una via patrilineare, è una dea ad andare in sposa ad un dio per acquisire il potere ed il regno.
Il concetto che è di nostro interesse però è l'acquisizione o il lascito di qualcosa per arrivare ad appartenere ad un preciso mondo e pertanto per cambiare se stessi e ritornare diversi e completi. Nel mito greco Kore si nutre alla mensa infera, mentre nel mito sumero Inanna abbandona i sette Me. Per quanto apparentemente differenti, in realtà questi due aspetti sono assolutamente simili. La differenza sta solo nel fatto che uno dei due è più recente, e quindi spiegato in modo più simbolicamente rintracciabile, mentre l'altro è più antico, quindi meno riconducibile a contesti ed interpretazioni attuali.
Il concetto di appartenenza e legame con il regno infero mediante il "nutrimento" fa parte di una coscienza del fatto che "siamo ciò che mangiamo", quindi qualsiasi cosa viene introdotta dentro di noi vive dentro di noi, lasciando segni che durano per sempre. Questo fatto non sfuggì ai filosofi dell'epoca come non sfugge tuttora, tanto che viene ancora ripreso in favole moderne. Se esaminiamo ad esempio un film fantastico del 2006 di Guillermo del Toro: Il Labirinto del Fauno, troviamo come Ofelia, la protagonista, sia la reincarnazione di una principessa di un regno sotterraneo, che fuggendo per il desiderio di vedere la luce e il mondo umano che sognava sempre, finisce accecata e immemore ed infine morta. Nei pressi del campo dimora dove vive, Ofelia trova un labirinto e una statua priva di un occhio, e riparandola apre un portale onirico dove può vedere l'invisibile e interagire con un fauno che, dopo averle rivelato la verità sulla sua vita precedente, le spiega che per tornare nel regno dove appartiene deve superare tre prove di riscoperta di se stessa. La prima è chiaramente legata alla riscoperta del femminino sacro e riguarda il recuperare una chiave da un rospo gigante che si nutre della vita di un antico albero di fico. La chiave, come sempre, rappresenta il concetto di "interpretazione" di un codex a volte dimenticato: in questo caso il potere femminile oppresso dal regime fascista dell'epoca, dato che si svolge nella Spagna sull'orlo della guerra civile del 1944, dove il patrigno di Ofelia è un crudele capitano dell'esercito che si preoccupa solo del figlio che Carmen, la madre della bambina, porta in grembo. A parte il concetto dell'albero stesso di fico, che richiama il simbolismo mestruale che abbiamo già visto, la forma stessa del tronco nel film riporta alla mente un utero, con due rami monchi e ricurvi come due corna a rappresentare le ovaie e con l'interno umido e cavo. La bambina deve quindi entrare nel tronco per recuperare la chiave perduta che le permetterà l'accesso al secondo passo iniziatico. La seconda prova infatti consiste nel disegnare una porta sul muro con il gesso e inserirvi la chiave per entrare in una realtà parallela dove un demone glabro e bianco privo di occhi attende seduto ed immobile di fronte ad una tavolata imbandita: sul piatto vuoto davanti a lui attendono i suoi bulbi oculari. In un angolo della stanza lunga, stretta e a volta, ci sono pile di scarpe a taglia di bambino e i muri sono decorati con raccapriccianti rappresentazioni di questo stesso Uomo Pallido mentre si nutre di infanti. Questa stessa rappresentazione ricorda in modo abbastanza chiaro il concetto di Crono che si nutre dei suoi figli, soprattutto nella versione dell'opera surrealista di Goya. La prova consiste nel recuperare un pugnale senza però toccare nulla delle invitanti e abbondanti pietanze disposte sul tavolo; prova che Ofelia non riesce a portare a termine completamente perché, accingendosi ad andarsene senza fare il minimo rumore, si sofferma a mangiare un succoso acino d'uva, risvegliando così il terrificante Uomo Pallido che si piazza gli occhi nei palmi delle mani e comincia ad inseguirla. La tavola imbandita è chiaramente un richiamo al regno infero di Ade, dove lei, nonostante avesse avuto un chiaro ammonimento a non mangiare nulla, decide di nutrirsi. Ade era appunto chiamato il munifico proprio perché aveva immense ricchezze, ma non aveva nulla di ciò che realmente voleva perché non aveva nessuno con cui condividerle: gli mancava l'amore, quindi il motivo per cui rapisce la stessa Kore. Ofelia recupera un pugnale, che simboleggia la coscienza archetipica, quindi affronta il suo potere inconscio, rafforzandolo e scontrandosi con il demone cannibale, rappresentato nella realtà dal patrigno fascista e oppressivo, e riuscendo a sfuggirgli per il rotto della cuffia.
Il fauno rimprovera quindi Ofelia di non aver superato la prova e le nega ogni accesso al regno dell'immortalità, abbandonandola alla superficie dove per giorni è testimone della crudeltà del mondo. Nel frattempo la madre perde la vita durante il parto e il fauno misteriosamente fa di nuovo la sua comparsa, dicendole che le darà la possibilità di completare l'iniziazione e avere così accesso al regno portando il fratello al centro del labirinto durante la notte di luna piena e una volta che, inseguita dal patrigno, riesce a portare a termine il compito, il fauno le chiede di darglielo affinché possa ferirlo col pugnale e versare così una goccia del suo sangue. La bambina si rifiuta e, anche se la creatura le ricorda che gli aveva garantito assoluta obbedienza e che così non potrà accedere al regno, lei rifiuta di nuovo. Il patrigno nel frattempo la trova, la uccide sparandole e porta via il bambino. In questo modo, mentre il sangue sgorga dal suo corpo fluendo nel labirinto, Ofelia completa la terza prova: il sacrificio di sé per crescere e per evolversi.
Questo mito ci insegna quindi alcune cose, indifferentemente dal fatto che siamo uomini o donne: per accedere ai reami più alti dobbiamo conoscere gli abissi più profondi. Nella stregoneria, nello sciamanesimo e anche nella wicca, in particolar modo, questo è rappresentato dal confronto con la propria ombra, che avviene, in genere, a ridosso della seconda iniziazione. In quanto tale, anche nella mitologia l'eroe viaggia negli inferi, esplora il mondo sconosciuto e oscuro, ne emerge vincitore e, in seguito, si sposa.
Nel mito greco la discesa nel Tartaro, affrontata da svariati eroi come Perseo, Odisseo, Orfeo, Enea, Eracle e Teseo, era nota come Nékuia, che significa "viaggio al termine della notte". Il primo momento in cui si trova è nell'Odissea di Omero ed in seguito prese il nome che ancora adesso spesso uso, ossia catabasi, che deriva dal greco kata che significa "basso" e bainein che significa "andare", quindi letteralmente "discesa". Questo concetto permette, ancora adesso, di distinguere il culto in esoterico ed essoterico e, pertanto, anche con il favore del biblico lavoro di Jung sulla psicanalisi, riuscire a chiarire i punti cardine di quello che è realmente il nostro Nékuia, che però avviene senza muovere un singolo passo fisico, ma procedendo nella conoscenza e nell'esplorazione di sé. Le due diverse interpretazioni e quindi i due approcci al mito, quello rivelato legato al culto divino vero e proprio, fatto di rituali, offerte, sacrifici e tutta la struttura magica, e quello misterico, quindi composto di esperienze che una persona non può pensare di spiegare perché nessuno può sperare di comprendere ciò che non può che vivere, possiedono entrambi differenti spunti di riflessione che ognuno può scoprire e valutare. L'ulteriore insegnamento che possiamo cogliere in questo mito è che qualsiasi sia la clavis che decidiamo di usare per rapportarci all'interpretazione di ciò che siamo portati ad affrontare, quindi quale che sia il codex a noi utile, non cambia per nulla lo scopo dell'esperienza che ci si pone di fronte e nemmeno il valore della stessa. Inanna non si spiega perché deve abbandonare ad uno ad uno, ad ogni porta, i sette Me che porta con sé e che rappresentano la sua regalità e quindi, da un punto di vista spirituale, la dea che era prima; tanto che ad ogni cancello che oltrepassa penetrando sempre di più nel regno di Kur, e quindi ad ogni Me di cui viene privata, pone sempre la stessa domanda: "Che significa ciò?". E la risposta è sempre la medesima: "Taci, Inanna, le usanze del mondo sotterraneo sono perfette. Esse sono indiscutibili". Questa risposta così tassativa e priva di spiegazione pone l'accento sull'accettazione di ciò che è necessario fare per ottenere ciò che siamo giunti a cercare e non sulla prematura conoscenza del significato della prova cui ci sottoponiamo. È solo alla fine del viaggio, quando la morte e la rinascita simboliche ci permettono di svelare il mistero che la consapevolezza splenderà nell'oscurità, rivelandoci il significato delle prove che abbiamo dovuto affrontare e superare, che finalmente possiamo congiungere i pezzi. Il sommo mistero della vita e della morte sono tali proprio perché non ci è concesso svelarli prima che per noi sia giunto il tempo di separarci da questa vita. Se non fosse così e se noi avessimo piena coscienza di ciò che esiste oltre la morte le religioni stesse e la filosofia non avrebbero senso di esistere. Se, quindi, Inanna avesse portato con sé i suoi Me oltre i sette cancelli di Kur, non sarebbe stata pronta ad abbandonare la vita per inoltrarsi sul sentiero che porta alla morte. Sarebbe quindi rimasta incompleta, perché anche uno solo di quegli oggetti, in qualche modo, simbolicamente le avrebbe impedito di morire e pertanto di rinascere: solo abbandonando la propria identità al passato possiamo essere pronti ad acquisirne una nuova e consentire così, in questo modo, la buona riuscita della nostra catabasi. E come Inanna non comprende il motivo per cui deve abbandonare i suoi gioielli, così Persefone non comprende (o abnega) in principio il motivo per cui non doveva mangiare nulla dalla mensa infera se il suo desiderio non era quello di rimanere legata a quel luogo per sempre. È qui, forse, che possiamo scovare la motivazione per la quale Ade inganna o comunque fa valere il suo diritto non informando la dea di cosa le capiterà se dovesse mangiare qualcosa: avere dalla propria il potere di decidere se acquisire o meno una consapevolezza e un'integrità equivale ad avere il potere sulla propria vita: quello che Yahweh, nella Genesi cerca di negare ai due abitanti del giardino dell'Eden minacciandoli di morte se avessero mangiato il frutto dell'Albero della Conoscenza e che loro, per natura umana, implacabilmente ignorarono portando su loro stessi e sui loro discendenti la sventura e la maledizione della carne e della morte.